lunedì 24 aprile 2017

Navi di soccorso Ong: quasi un clima da caccia alle streghe

 

di Emilio Drudi



Continua a montare l’escalation di illazioni e accuse di “collusione” con i trafficanti di uomini rivolte ormai da mesi contro le Ong impegnate nelle operazioni di soccorso alle barche dei migranti nel Canale di Sicilia. Il primo passo è stato un rapporto dell’agenzia Frontex, presentato sul finire del 2016, secondo il quale gli interventi in mare favorirebbero, sia pure involontariamente, gli scafisti. Poi, rafforzate da una inchiesta della Procura di Catania, si sono via via aggiunte numerose “voci” della politica: dei partiti di destra (a cominciare dalla Lega) e poi dei 5 Stelle ma, a quanto ha scritto il 20 aprile La Stampa, anche di esponenti vicini al Governo o del Governo stesso, tanto da arrivare a una indagine conoscitiva affidata alla Commissione parlamentare Difesa che, guidata dal senatore Nicola La Torre, sta convocando tutte le Ong più impegnate nel Mediterraneo. Interrogati da questa stessa Commissione, sia il generale Stefano Screpanti, capo del terzo Reparto Operazioni della Finanza, che l’ammiraglio Enrico Credendino, comandante della missione europea Eunavformed, hanno dichiarato che, a loro sapere, non risultano collegamenti di alcun tipo fra le Ong e le organizzazioni che gestiscono il traffico di migranti. Ma neanche questo è bastato: le Ong restano sotto tiro. Le loro navi – si afferma – sarebbero come minimo un fattore di attrazione per gli scafisti, tanto da porre la necessità di “fare chiarezza” su tutti i programmi di salvataggio in mare.

Sono cinque, in sostanza, gli “elementi di accusa” addotti per puntare il dito contro i soccorsi organizzati dalle Ong: la partenza in massa dalla Libia nel week end di Pasqua, che sarebbe il risultato di una “regia ben orchestrata”, anche con l’intento di screditare il ruolo di Fayez Serraj, il presidente del Governo di Tripoli che si è impegnato con l’Italia a combattere gli scafisti; la conoscenza preventiva delle rotte seguite dai battelli carichi di migranti; le fonti di finanziamento per coprire le ingenti spese di gestione delle navi usate per la ricerca e il soccorso; il fatto che l’attività delle Ong a poche miglia dalla Libia favorirebbe comunque i clan di trafficanti. E’ il caso di esaminare una per una queste contestazioni.

– Partenza in massa. Nei tre giorni del week-end di Pasqua sono arrivati quasi 8.500 richiedenti asilo. Sono tanti, ma non è la prima volta. Al contrario. E’ solo l’ultimo di una lunga serie di sbarchi in massa dalla Libia. Sono anni, cioè, che i flussi si muovono a fasi alterne: a periodi in cui si riducono quasi a zero ne fanno riscontro altri in cui invece sono migliaia in pochi giorni, spesso addirittura in poche ore, i profughi imbarcati. Tra il 2 e il 4 ottobre 2014, ad esempio, ne sono arrivati 3.100; nel 2015, nella sola giornata del 22 giugno, 2.518 e una settimana dopo, sempre in un solo giorno, il 29 giugno, ne sono stati recuperati 2.900, con 21 operazioni condotte dalla Guardia Costiera; circa 3.000 tra il 21 e il 22 agosto, su 6 barconi e 16 gommoni; 4.600 in tre giorni, dal 4 al 6 dicembre; 2.709 dal 23 al 26 dicembre. Più significativi ancora gli esempi del 2016: circa 5.000 il 23 giugno; addirittura 13.000 in quattro giorni, tra il 27 e il 30 agosto ma, in proporzione al periodo di tempo, ancora di più nelle 48 ore del 4 e 5 ottobre, con 11 mila sbarchi. A determinare queste fasi alterne sono diversi fattori: le condizioni meteo favorevoli; l’affollamento in Libia dei centri di detenzione o comunque dei “ricoveri” gestiti dai trafficanti e la necessità di “fare spazio” ad altri arrivi dal sud; il timore o anche solo la sensazione che stiano per essere attuati interventi per contrastare le partenze. E nella settimana di Pasqua si sono verificate esattamente queste tre condizioni: mare favorevole; ressa di rifugiati in attesa di partire: secondo l’Oim, non meno di 300 mila; accordi Italia-Libia per un “giro di vite” sui flussi, ampiamente pubblicizzati da Roma, anche con l’annuncio, per i controlli in mare, della ormai prossima “fornitura” dei primi due nuovi pattugliatori alla Guardia Costiera di Tripoli, poi consegnati effettivamente il 21 aprile. Chiunque si sia minimamente occupato del “problema profughi” non può non conoscere questi precedenti, queste “cifre” e questi fattori: non tenerne conto significa non dare o, peggio, non voler dare un quadro esatto della situazione.

– Manovra per screditare Fayez Serraj. In realtà, agli occhi della maggioranza dei libici, Serraj e il suo governo sono già screditati e privi di seguito per il modo stesso con cui si sono insediati al potere. A torto o a ragione, Serraj, in sostanza, è percepito come un Quisling imposto e al servizio delle cancellerie occidentali. Il Parlamento di Tobruk non gli ha mai votato la fiducia e lo considera di fatto un premier illegittimo; per Khalifa Ghwell e l’ex governo islamico sarebbe un impostore che rischia di favorire il ritorno del colonialismo in Libia e un’operazione colonialista sarebbe anche il nulla osta alla presenza dei parà della Folgore inviati a proteggere l’ospedale militare aperto dall’Italia a Misurata; sia Tobruk che Ghwell lo hanno diffidato a consentire l’accesso nelle acque territoriali di navi da guerra straniere, minacciando di reagire con le armi; la Corte di Tripoli ha dichiarato nullo il memorandum per il controllo dell’immigrazione sottoscritto con l’Italia proprio perché, non avendo mai ottenuto la fiducia del Parlamento di Tobruk, non gli si riconosce il potere di firmare trattati internazionali di alcun tipo; sono stati rigettati dall’Assemblea dei Tebu persino gli accordi del Viminale con le tribù del Fezzan che dovrebbero completare l’attuazione del memorandum di Roma.

– La conoscenza delle rotte. Le rotte percorse dalla Libia verso l’Italia dai barconi o dai gommoni dei migranti sono ben note da sempre. A tutti. Il perché è semplice. Le partenze avvengono su un arco di costa di circa cento chilometri che va da Tajoura, un’oasi litoranea 9 chilometri a est di Tripoli, fino a Zuwara, un importante porto a poco più di 90 chilometri a ovest, passando per Zawiyah e Sabratha. Solo eccezionalmente l’arco si allunga fino a Garabouli, 50 chilometri circa a est di Tripoli. E’ chiaro allora che le rotte sono sempre le stesse. Basta pattugliare questo tratto di litorale e i battelli dei migranti verranno prima o poi intercettati, come se percorressero un’autostrada. Per molti versi è in buona parte il sistema seguito per un anno intero, dal novembre 2013 al novembre 2014, dalle navi dell’operazione Mare Nostrum: le unità delle Ong non fanno altro che replicarlo, attestandosi a una ventina di miglia dalla costa libica.

– Spese e finanziamenti. Tutte le Ong hanno dichiarato “trasparenti” i propri bilanci e si sono dette pronte a metterli a disposizione per eventuali controlli, sottolineando come non ci sia nulla di illegale e come la stragrande maggioranza delle spese sostenute venga coperta da donazioni. La sola Sos Mediterranee, ad esempio, ha specificato che ben 13.800 donatori “ripongono la loro fiducia” nella sua attività, finanziandone le spese fino al 99 per cento. In una riunione congiunta tenuta a Bruxelles il 31 marzo, anzi, le Ong presenti (Sea Watch, Poem Aid, Proactiva Open Arms, Sos Mediterranee, Helenie Rescue Team, Jugend Rettet, Humanitarian Pilots Iniztiative, Sm Humanitario, United Rescue Aid), non solo hanno ribadito la correttezza della propria azione ma si sono dette pronte “a un dialogo aperto con tutte le istituzioni europee”, chiedendo di porre fine “a ogni accusa di comportamenti illegali da parte delle Ong, a meno che non siano sostanziate dalla presentazione di prove”. Per certi versi, una vera e propria sfida.

– Favoreggiamento per i trafficanti. Le Ong sono estremamente decise su questo punto: non solo – affermano – non c’è alcun tipo di collegamento ma neanche alcuna forma di favoreggiamento, magari indiretto. La presenza delle navi di soccorso nel Mediterraneo – spiegano – mira a salvare vite umane in una situazione estrema creata dal rifiuto dell’Unione Europea e delle singole cancellerie occidentali di istituire canali legali di immigrazione. I profughi fuggono da guerre, terrorismo, carestia, mancanza assoluta di prospettive per il futuro e continueranno a fuggire nonostante i muri e gli ostacoli che si stanno costruendo, perché si lasciano alle spalle condizioni terribili, ritenute peggiori dei rischi che sanno di dover affrontare. Sono proprio questi muri, semmai, a favorire e ad alimentare l’attività criminale dei trafficanti, non dando alcuna via di scampo “regolare” ai richiedenti asilo. Il punto, allora, per le Ong, è proprio questo: abbattere quei muri è l’unico modo per combattere il traffico di uomini e salvare la vita a migliaia di persone “La ragione per cui esiste un sistema economico di traffico di migranti – ha detto ad esempio Jens Pagotto, di Medici Senza Frontiere, all’indomani del rapporto di Frontex – è legata anche al fatto che la Ue non offre nessuna alternativa legale e sicura ai rifugiati e ai migranti che cercano protezione in Europa. Affrontare questo aspetto sarebbe il miglior modo per evitare altre inutili morti in mare e per sradicare le reti dei trafficanti”.

Come dire: le Ong si sono mobilitate per far fronte alla realtà drammatica causata in buona parte dalla politica europea di “chiusura” sull’immigrazione. Ed è proprio questa “chiusura”, di fatto, l’elemento che più favorisce i clan criminali dei trafficanti. Ma quali saranno le conseguenze se, sotto la spinta del clima da caccia alle streghe che si è ormai creato, le Ong decideranno di ritirarsi? Le più immediate sono almeno due. La prima, la più grave ed evidente, è che aumenteranno le sofferenze e le vittime, esattamente come è avvenuto dopo la “chiusura” di Mare Nostrum, decisa nonostante gli avvertimenti giunti dall’Unhcr e da tutte le principali associazioni umanitarie che il “conto di morte” si sarebbe moltiplicato. La seconda è che, allontanando le Ong, si toglieranno di mezzo testimoni scomodi di quanto si sta verificando in mare e, di riflesso, anche in Libia e in Africa: testimoni che specie negli ultimi mesi hanno documentato gravissimi episodi di violenza di cui si è resa protagonista la Guardia Costiera libica. Quella Guardia Costiera alla quale l’Italia e l’Europa vogliono affidare il compito di “gendarme del Mediterraneo”.

Tutto questo è più che noto a Roma come a Bruxelles. C’è da chiedersi, allora, a chi giovi.



Tratto da: Diritti e Frontiere          

martedì 18 aprile 2017

Appello all’Italia e all’Unione Europea


Angenzia Habeshia

Appello all’Italia e all’Unione Europea

Profughi schiavi in Libia, soprusi e violenze in tutti gli Stati lungo le vie di fuga

Centinaia di rifugiati e migranti africani sono rapiti in Libia per chiederne un riscatto o per essere messi in vendita per il lavoro forzato o lo sfruttamento sessuale. Siamo di fronte a un autentico mercato degli schiavi. E’ quanto emerge dallo sconvolgente rapporto pubblicato in questi giorni a Ginevra dall’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (Oim).

Accade soprattutto a Sabha, la città del Fezzan che è lo snodo delle principali vie di comunicazione che confluiscono in Libia dal sud, per poi diramarsi verso Tripoli e la costa. Le persone – ha precisato Othman Belbeisi, capo della missione Oim in Libia – sono “offerte” a un prezzo che varia tra i 200 e i 500 dollari per un periodo di 2/3 mesi nei quali restano in completa balia dei compratori. Come schiavi. Di più: Othman Balbeisi ha precisato che uomini e donne “sono venduti apertamente al mercato, come fossero una merce qualsiasi” e che questo giro d’affari dei trafficanti è in continua crescita.

I migranti vengono catturati lungo la strada verso il Mediterraneo da gruppi armati e da quel momento la loro sorte è segnata: gli uomini diventano schiavi per il lavoro coatto; le donne vengono stuprate, diventano schiave sessuali, vengono consegnate ai giri di prostituzione. Chi si rifiuta di pagare il riscatto per riavere la libertà o non si piega a questo girone di schiavitù, viene torturato e ucciso.

E’ un business che si profila come inesauribile: i migranti morti o liberati vengono sostituiti continuamente da altri catturati giorno per giorno. Prigioni improvvisate in garage, capannoni, casolari isolati, ecc. sono piene di questi disperati, sotto il controllo delle organizzazioni di trafficanti. Autentici lager dove le condizioni di trattamento sono disumane. Peggio, un tormento continuo: abusi, soprusi, torture, violenze, stupri scandiscono la vita di ogni giorno. Il cibo è scarsissimo, spesso viene negata persino l’acqua da bere

Il rapporto pubblicato a Ginevra dall’Oim fornisce un quadro terribile, basato su numerose testimonianze e accertamenti condotti sul posto. Una situazione orrenda, ma che conferma l’escalation di orrore già documentata in Libia dai numerosi rapporti che si sono succeduti in questi anni ad opera di numerose Ong e dello stesso Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr). Una situazione, cioè, almeno in parte già nota e alla quale l’Oim ha aggiunto altre pagine importanti, decisive.

Le autorità libiche non possono non conoscere questo stato di cose, ma finora non hanno adottato alcun provvedimento per cercare di fronteggiarlo e porvi rimedio. Nulla lo ha fatto, in particolare, il Governo di Tripoli guidato dal presidente Fayez Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e che anche l’Italia considera l’unico interlocutore valido nel Paese, come dimostra la serie di accordi stipulati nel tempo, fino al memorandum firmato il 2 febbraio scorso a Roma, riconosciuto dalla Ue nel vertice di Malta del 3 febbraio e ribadito nell’incontro del 21 marzo, ancora a Roma. Nulla hanno fatto le forze di polizia che operano sul territorio, a cominciare dal comando di Sabha. Non hanno fatto nulla i capi delle tribù del Fezzan con i quali l’Italia ha ritenuto di sottoscrivere una intesa di collaborazione il 30 marzo scorso in un incontro generale al Viminale. Anzi, secondo ripetute denunce dell’Unhcr e delle Ong, risultano complici o comunque collusi con i clan di trafficanti/schiavisti anche numerosi esponenti dell’apparato statale e delle forze di sicurezza, a tutti i livelli.

La situazione in Libia è certamente la più grave, ma condizioni di estremo pericolo, di sopruso, sofferenze  inumane, violazione sistematica dei diritti si registrano, con una crescita esponenziale, anche in altri Stati di transito o di prima sosta dei migranti

– In Sudan il controllo dell’immigrazione è affidato alla Milizia di Intervento Rapido: si tratta dei cosiddetti “diavoli a cavallo”, i reparti speciali che hanno insanguinato la regione del Darfur per anni, provocando centinaia di migliaia di vittime, tanto da procurare al presidente Al Bashir l’accusa di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Queste milizie, secondo il loro stesso ultimo rapporto, solo negli ultimi mesi hanno arrestato oltre 1.500 profughi, quasi tutti eritrei e in gran parte minorenni, gettati in carcere in attesa di essere rimpatriati di forza, senza tenere conto che, riconsegnati alla dittatura da cui sono fuggiti, andranno incontro a una galera ancora peggiore.

– In Egitto le prigioni sono piene di profughi colpevoli solo di aver passato i confini senza documenti, con la prospettiva di restarci fino a che non pagheranno le spese di rientro coatto nel proprio paese. Rientro che per molti, a cominciare dagli eritrei, implica il rischio di persecuzioni e nei casi estremi della vita stessa. Non solo: al Cairo, Alessandria e in tutte le principali città sta crescendo un clima di ostilità diffusa, che spesso sfocia in episodi di vero e proprio razzismo, costringendo le comunità di migranti a vivere quasi in clandestinità, in pratica senza alcuna possibilità trovare un lavoro, cercarsi una casa, condurre un’esistenza normale.

– In Niger, dove pare si voglia creare il principale polo di concentramento e di smistamento dei migranti in Africa, le condizioni di sicurezza sono a dir poco precarie, come dimostrano i ripetuti attacchi condotti da gruppi di terroristi jihadisti sia legati a Boko Haram che ad Al Qaeda, con incursioni da oltreconfine che hanno investito città, villaggi e gli stessi campi profughi. Non solo: secondo molti osservatori, proprio il Sahel tra il Niger e il Mali sta diventando la principale base di “irradiazione” del terrorismo islamico in Africa..

A fronte di tutto questo l’agenzia Habeshia chiede di

– Esercitare pressioni sul Governo di Tripoli perché combatta ed elimini al più presto il mercato degli schiavi denunciato dall’Oim e, in caso perduri l’inerzia registrata finora, mettere in campo, sotto l’egida dell’Onu, una serie di provvedimenti e interventi che valgano a porre fine all’attuale situazione.

– Sospendere o meglio revocare il recente memorandum sull’immigrazione con la Libia, peraltro già bocciato e dichiarato nullo dalla Corte di Tripoli, perché rischia di peggiorare ulteriormente la già tremenda vicenda di profughi e migranti, bloccandoli in un paese dove il rispetto dei loro diritti è assolutamente aleatorio e dove la loro stessa vita è esposta ogni giorno a pericoli e sofferenze estremi.

– Sospendere o meglio revocare il patto concluso con le tribù del Fezzan, peraltro già rigettato e ritenuto non valido dai vertici più rappresentativi di alcuni dei clan più importanti e autorevoli. Alla luce di quanto sta accadendo, infatti, non è dato avere alcuna garanzia sul trattamento, la sicurezza, la sorte dei migranti eventualmente intercettati e bloccati da queste tribù. 

– Sospendere tutti i rimpatri forzati (che il recente decreto Minniti prevede  invece di moltiplicare) sia verso l’Asia e il Medio Oriente sia verso l’intera Africa, ma in particolare verso la Libia. La formula del “paese sicuro” che è alla base di questi rimpatri/espulsioni, infatti, è quanto meno aleatoria e approssimativa.

– Ripensare radicalmente la politica sull’immigrazione. Ovvero:

A) Sospendere o meglio annullare accordi come i Processi di Khartoum e di Rabat, i trattati di Malta del novembre 2015 e tutti i patti bilaterali che ne sono conseguiti per l’attuazione concreta, come, ad esempio, il patto di polizia firmato a Roma con il Sudan il 3 agosto 2016 o, appunto, il recente memorandum con la Libia. Lo stesso vale per l’accordo con la Turchia in vigore dal marzo 2016.

B) Istituire canali legali di immigrazione verso l’Europa, a cominciare da facilitare il ricongiungimento famigliare, rilascio di visti umanitari, e una serie di corridoi umanitari e attuare un concreto, efficace programma di reinsediamento

C) Impostare un sistema di accoglienza e di asilo unico e valido in tutta la Ue, superando di conseguenza l’attuale Regolamento Dublino 3

D) Abbandonare il progetto del Migration Compact che, secondo varie fonti di stampa, l’Italia intende rilanciare in occasione del G-7 di Taormina e fare invece proprio del G-7 l’occasione per una nuova politica globale sul problema enorme di rifugiati e migranti, abbandonando per sempre la logica dei muri e delle barriere e affrontando invece alla radice le cause dell’esodo di milioni di persone.

Appare necessaria, in questo senso, una strategia basata su tre punti:

– Prevenire: il divampare di guerre e conflitti, dittature, carestie e disastri ambientali ect ... 

– Proteggere: I profughi vanno protetti nei paesi di transito e di prima sosta, offrendoli condizione di sicurezza e una vita dignitosa. 
– Accogliere: chi si trova in una situazione di vulnerabilità a causa di guerre, dittature, persecuzioni, sconvolgimenti dovuti a carestie e calamità naturali, condizioni di diffusa ingiustizia sociale ed economica.

Habeshia chiede con forza che il G-7 adotti questa strategia.

Don Mussie Zerai

Presidente dell’Agenzia Habeshia


Roma, 17 aprile 2017    

venerdì 14 aprile 2017

Come funziona il blocco dei migranti in Africa voluto dall’Unione Europea


di Emilio Drudi

Respingimenti più rapidi e facili nei confronti dei migranti, grazie alla cancellazione di un grado di giudizio nelle “cause” sui ricorsi per le richieste di asilo negate e le espulsioni; quadruplicazione del numero dei Cie, portati da 4/5 a 18, uno per regione, per un totale di 1.800 posti; più fondi per attuare i rimpatri forzati. Con il via libera arrivato dalla Camera, dopo quello del Senato, il decreto Minniti è operativo: ci si avvia velocemente a quella moltiplicazione degli allontanamenti coatti dei cosiddetti “stranieri irregolari” annunciata quattro mesi fa, forti anche degli accordi raggiunti con una serie di Paesi disponibili a “riprenderli” in Africa, anche a prescindere dalla loro nazionalità.
E’ un ulteriore passo verso l’attuazione completa del Processo di Khartoum, l’accordo fortemente voluto dall’Italia e firmato a Roma il 28 novembre 2014 tra l’Unione Europea e dieci Governi del versante orientale dell’Africa, con l’obiettivo – rafforzato dai successivi trattati di Malta (novembre 2015), che prevedono anche i rimpatri forzati dalla Ue – di esternalizzare il più a sud possibile i confini della Fortezza Europa, dandone in gestione la sorveglianza agli Stati africani contraenti, in cambio di milioni di euro, mascherati da “contributi allo sviluppo”. Un ulteriore passo in avanti, cioè, verso la realizzazione di quella barriera dove saranno altri a fare il lavoro sporco di bloccare i profughi e i migranti al posto dell’Italia e dell’Europa, ignorandone la volontà, la libertà, i diritti, la sorte stessa che li aspetta. E senza preoccuparsi dei metodi usati per tenerli al di là di quel muro.
Già, i metodi e il rispetto dei diritti. Un primo esempio concreto degli effetti del Processo di Khartoum sulla sorte dei profughi è arrivato dal Sudan, uno degli Stati cardine dell’accordo, dove negli ultimi mesi almeno 1.500 eritrei sono stati bloccati e buttati in galera, in attesa di essere rimpatriati: riconsegnati, cioè, alla dittatura dalla quale sono fuggiti, senza considerare che ad Asmara li aspetta una galera ancora più dura, per espatrio clandestino o, peggio, come disertori, essendo quasi tutti in età di leva, in base al servizio militare a vita instaurato dal regime. Ed è solo l’inizio. Una dimostrazione più ampia di quello che accadrà quando il programma funzionerà “a pieno regime”, la dà, giorno per giorno, il Processo di Rabat, l’accordo raggiunto dall’Unione Europea con 28 Stati del versante occidentale dell’Africa e di cui il Processo di Khartoum è per molti versi una “filiazione”. Firmato nel 2006, dopo un periodo di “rodaggio”, il piano Rabat è ormai diventato una barriera efficacissima, come dimostra il numero di migranti che riescono a sbarcare in Spagna dal Marocco: l’anno scorso appena 9.000 contro i 181.400 arrivati in Italia e i quasi 182 mila della Grecia. Peccato che questo blocco – come denunciano da tempo numerose Ong – sia “costruito” sulla pelle e sui diritti di profughi e migranti, in una spirale di violenza, soprusi, torture, dove la polizia e le milizie incaricate di vigilare sui confini sembrano avere in pratica mano libera, senza che nessuno ne chieda conto.
L’ultimo dossier è stato pubblicato in questi giorni, proprio mentre il decreto Minniti veniva approvato. Ne è autore Alarm Phone e si basa, in sostanza, sul monitoraggio di episodi accaduti in Marocco e in Algeria dal mese di dicembre 2016 alla fine di marzo 2017. A scorrerne le pagine, ne emerge una escalation di repressione, retate, arresti, deportazioni di massa. E non mancano le vittime: vite spezzate di giovani colpevoli di aver inseguito un sogno di libertà.
Deportazioni di massa. I raid della polizia e le deportazioni si sono moltiplicati in particolare tra la fine di novembre 2016 e il mese di febbraio 2017. Solo a Ziralda, nella provincia di Algeri, sono stati arrestati più di 1.500 migranti. Numerosi altri arresti sono segnalati in Marocco. Chi incappa nelle retate non ha scampo: tra le persone che operatori di Alarm Phone sono riusciti a contattare dopo l’espulsione forzata dall’Algeria, ad esempio, alcuni avevano un regolare permesso di soggiorno. Parecchi sono minorenni e due di questi, anzi, erano ospiti di un centro di protezione. Ma non c’è stato nulla da fare: per tutti i fermati è scattata l’espulsione. Una evidente espulsione di massa, decisa ed effettuata a prescindere dai diritti dei profughi e dalle convenzioni internazionali, simile a quelle per cui alcuni paesi europei, Italia inclusa, sono stati sanzionati in passato. Ma in questo caso, appunto, formalmente l’Europa non c’entra: il “lavoro” sono stati altri a svolgerlo.
In Marocco un’ondata massiccia di arresti si è avuta tra il 19 e il 21 febbraio, dopo due tentativi di superare in gruppo le barriere di filo spinato che blindano la linea di confine dell’enclave spagnola di Ceuta. Secondo notizie giunte alla Ong da collaboratori di Tangeri, più di cento fermati, inclusi alcuni feriti, in meno di 48 ore, ma potrebbero essere anche di più. In ogni caso, i cento e passa segnalati da Tangeri si trovano ancora in carcere: processati per direttissima, sono stati condannati a pene variabili tra i 3 e i 6 mesi e trasferiti nella prigione di Tetouan. “Ma nel processo – contesta Alarm Phone nel suo dossier – non sono state garantite le procedure legali. Gli accusati non hanno avuto alcuna possibilità di difendersi. Alcuni non hanno potuto leggere né i verbali di arresto della polizia né altri documenti. Non si è provveduto a tradurre le carte dall’arabo nella lingua degli imputati. E’ inaccettabile il modo in cui si è arrivati alla condanna. Per di più i prigionieri hanno denunciato condizioni di detenzione discriminatorie, senza la possibilità di ricevere visite e di incontrare le organizzazioni umanitarie…”.
Luoghi e metodi di deportazione. Le deportazioni – contesta Alarm Phone – vengono effettuate “in condizioni disumane”, con violenze e soprusi. Molti migranti hanno anche lamentato che al momento del fermo si sono visti sequestrare dalla polizia tutti gli effetti personali (cellulari, denaro, bagagli), che nessuno, nella maggior parte dei casi, ha poi restituito. Non solo: una volta al di là del confine, tanti sono stati abbandonati senza che avessero “nemmeno il minimo necessario per sopravvivere, a cominciare dall’acqua e dal cibo”, poiché pure le piccole riserve alimentari che avevano sono state sequestrate al momento del fermo o della distruzione dei campi improvvisati nei quali, per lo più, i profughi sono stati sorpresi. Quanto ai luoghi di destinazione dei trasferimenti forzati, dall’Algeria “i migranti vengono deportati verso sud, nel Sahara, al confine con il Niger e il Mali”. E’ qui che sarebbero finiti quasi tutti i 1.500 arrestati a Ziralda. “In Marocco, invece – prosegue il rapporto – le deportazioni sono indirizzate verso il confine con l’Algeria, nella regione di Oujda (all’estremità orientale: ndr) oppure verso il Sud del Paese”. Molti di quelli fermati mentre tentavano di entrare nel territorio spagnolo di Ceuta, dopo essere stati provvisoriamente condotti a Tangeri o a Castellejo dalle milizie ausiliarie marocchine, sono stati trasferiti verso i centri di detenzione di Fes, Tiznit e Kenitra, nel centro o nel sud del paese, in attesa dell’espulsione. Sempre con metodi a dir poco bruschi. “Alcune persone contattate dopo le retate hanno raccontato le violenze che hanno dovuto subire. Violenze confermate dalle organizzazioni algerine per i diritti umani che si sono occupate del caso”, rileva Alarm Phone, che poi aggiunge: “Più di venti organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali hanno denunciato pubblicamente questo tipo di operazioni”.
Alarm Phone ha seguito in particolare la vicenda di due gruppi di subsahariani: il primo di 47 e il secondo di 5 persone, raccogliendone le testimonianze. Entrambi i gruppi, condotti di forza al di là della frontiera del Marocco, hanno raccontato di essere rimasti abbandonati a se stessi, nella “terra di nessuno” tra il posto di confine algerino e quello marocchino, per una decina di giorni, senz’acqua e senza cibo. Sarebbero sopravvissuti, a quanto pare, soltanto grazie all’aiuto di alcuni volontari. Il loro racconto, specifica la Ong, è stato confermato da una serie di video e fotografie. Un trattamento inumano che non è stato risparmiato neppure a una donna disabile. Sono tante, del resto, le testimonianze drammatiche raccolte. Mouhamadou, 24 anni, originario della Costa d’Avorio, ha denunciato di essere stato picchiato e addirittura frustato, tanto da aver perso, per le violenze subite, l’uso parziale della mano sinistra. Esseline, una ragazza ventiseienne del Camerun, scacciata dalle guardie di frontiera algerine nonostante fosse in avanzato stato di gravidanza, dice di aver perso il bambino a causa delle sofferenze e delle fatiche patite. Cedric, appena sedicenne, anche lui proveniente dal Camerun, è stato costretto a rimanere prigioniero in una baracca militare per tre giorni, dopo che gli erano stati confiscati il bagaglio e tutti gli effetti personali.
Almeno 3 morti. Nel dossier vengono segnalati, infine, almeno tre morti, vittime della ormai totale militarizzazione del confine tra Marocco e Algeria. Lungo la linea di frontiera le autorità algerine hanno scavato una trincea larga 3 metri e profonda dai 3 ai 4 metri. Sul lato opposto il Marocco ha costruito un alto muro di recinzione, senza alcun varco. E’ qui – denuncia Alarm Phone – che tra il dicembre 2016 e il febbraio 2017 ci sono stati tre morti, oltre a diversi feriti, generalmente per fratture agli arti: persone precipitate in fondo a questa trincea anti-migranti. Più volte le guardie di frontiera sparano in aria per spaventare i profughi e costringerli ad allontanarsi dalla linea di confine. E’ presumibile, secondo la ricostruzione della Ong, che sia accaduto proprio questo: nella concitazione della fuga alcuni devono essere caduti nel grosso fossato mentre tentavano di saltarlo, rimanendo uccisi o feriti.
Al momento della firma del Processo di Khartoum, così come dei trattati di Malta o, appena due mesi fa, in occasione del memorandum con la Libia, il Governo italiano e l’Unione Europea si sono affrettati a dichiarare che gli Stati ai quali è affidata la vigilanza sui confini “esternalizzati” della Fortezza Europa, sono e saranno chiamati a garantire la sicurezza, trattamenti umani, condizioni di vita dignitose, il rispetto dei diritti dei migranti bloccati e respinti. “E’ un impegno assoluto, improrogabile”, hanno assicurato. Lo avevano detto anche al momento della firma del Processo di Rabat.
  

Tratto da: Diritti e Frontiere

giovedì 6 aprile 2017

Appello al Governo e al Parlamento Italiano




No ai migration compact e agli accordi conseguenti


L’Europarlamento ha condannato con una pesante risoluzione l’uso dei cosiddetti “migration compact”, gli accordi attraverso i quali, per bloccare i flussi migratori, l’Unione Europea e numerosi dei singoli Stati membri della Ue, a cominciare dall’Italia, esternalizzano il più a sud possibile i confini dell’Europa, dandone “in gestione” la vigilanza ai Governi africani o mediorientali contraenti, in cambio di finanziamenti descritti come aiuti o contributi allo sviluppo e alla cooperazione.

Nella risoluzione si chiede, in particolare, di instaurare “un regime di governance multilaterale” per le migrazioni, una più stretta cooperazione tra l’Unione Europea, gli organismi specializzati delle Nazioni Unite, le banche multilaterali di sviluppo e le organizzazioni regionali. E si sollecita, soprattutto, la creazione di una vera e propria politica comune europea in materia di migrazione, incentrata sui diritti umani e basata sul principio di solidarietà tra gli Stati membri.

Non solo: come prima “risposta” concreta, da attuare subito, il Parlamento Europeo vuole essere coinvolto nell’attuazione dei cosiddetti “migration compact” che l’Unione sta negoziando con vari Governi per frenare o bloccare  i flussi migratori, nella convinzione che questi accordi – di cui è stata condannata la “mancanza di trasparenza” – non devono servire per incentivare i Paesi terzi “a cooperare alla riammissione dei migranti irregolari o a dissuadere con la coercizione le persone a mettersi in viaggio oppure a fermare i flussi diretti in Europa”. Al contrario: lì dove se ne ravvisa la necessità o l’opportunità, gli aiuti vanno concessi dalla Ue senza porre alcuna condizione in materia di immigrazione.

Alla luce di questa risoluzione, sulla quale è totalmente d’accordo

l’Agenzia Habeshia

chiede al Governo e al Parlamento italiano di:

A – Revocare il recente accordo sottoscritto con il governo di Tripoli guidato da Fayez Serraj e il conseguente patto con circa 60 tribù del sud della Libia, rivolti appunto a bloccare o a rimandare in Africa i migranti, a prescindere dalla loro volontà e dalla sorte stessa che li attende. Questo è una palese violazione dei diritti fondamentali dell'Uomo.

A questa revoca vanno fatti seguire provvedimenti di annullamento o revisione analoghi per tutte le intese sottoscritte negli ultimi mesi o in via di completamento: ad esempio, Sudan, Mali, Gambia, Niger, ecc.

B – Ritirare prima dell’approvazione definitiva alla Camera il “decreto Minniti” sull’immigrazione, che è palesemente in linea e anzi completa i “migration compact”, riesumando i Cie (più volte condannati a livello europeo) per moltiplicare le espulsioni e introducendo – come hanno sottolineato numerosi giuristi – una palese violazione della Costituzione, istituendo una “giustizia speciale” ed eliminando uno dei gradi di giudizio per i ricorsi presentati contro l’eventuale rigetto delle domande di asilo o contro i decreti di respingimento forzato, con l’unico obiettivo di accelerare al massimo le procedure.

C – Rinunciare all’intenzione di rilanciare in occasione del G-7 di Taormina, nel prossimo mese di maggio, il programma generale di Migration Compact già presentato dall’Italia nell’aprile del 2016 a Bruxelles e rimasto in sospeso.

 D - Ci serve un piano congiunto tra EU - UA 1. Per risolvere le cause del esodo di profughi dell'Africa, andare alla radice del problema 2.  Proteggerli nei paesi di transito da ogni rischio di abusi e violenze, mettendo in atto un piano di accoglienza diffusa con un programma di sviluppo che coinvolge i rifugiati,  in Africa, offrendo sistemazione alloggiative, lavorative e borse di studio in Africa, creando quelle condizioni che rispettano la dignità umana. 3. Programma europeo di reinsediamento o corridoio umanitario per i casi di persone perseguitate, casi vulnerabili.


                                                                     Don Mussie Zerai

                                                             Presidente dell’Agenzia Habeshia
Aderiscono al nostro Appello:-
Tempi Moderni, 
Comitato Nuovi Desaparecidos, 
Progetto Diritti,  
Coordinamento Eritrea Democratica,
Diritti e Frontiere (Adif)
Comitato provinciale Anpi di Rimini
Possibile



       Roma, 5 aprile 2017