martedì 29 marzo 2016

Per risolvere la crisi migranti, ripartiamo dall'Eritrea

Presidente del gruppo dei Socialisti al Parlamento Europeo
Un regime del terrore. È questa l'Eritrea descritta dall'Onu, la cui commissione d'inchiesta ha denunciato apertamente la pratica di crimini contro l'umanità. Spesso, li vediamo arrivare sulle nostre coste nei barconi della morte senza sapere da dove e da cosa scappino migliaia di persone in Africa. Tra questi disperati, esseri umani come noi, l'Alto Commissariato calcola che nel solo 2015 i rifugiati eritrei abbiano raggiunto la cifra di 400 mila.

C'è, purtroppo, scarsa attenzione su questa parte del mondo attorno al Corno d'Africa dove si consuma, ormai da anni, una catena insopportabile di delitti contro lo stato di diritto e le persone. Noi vogliamo scuotere le coscienze e destare l'attenzione perché questa nazione ci sta a cuore e vogliamo batterci per il ripristino, intanto, di alcune minime condizioni di agibilità politica e del vivere civile del tutto cancellate dal potere assoluto e tirannico del presidente Isaias AfewerkiLo ha ripetuto Renzi recentemente. Lo ribadiamo noi ancora una volta: l'Africa è la nostra priorità e l'Eritrea rientra a pieno titolo in questa azione che può e deve riguardare l'Unione europea. Stiamo sollevando il tema di un Paese che, per stare alle investigazioni dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, calcola che oltre 400mila eritrei, pari al 9% della popolazione totale, hanno lasciato il paese e che ogni mese circa cinquemila persone lo abbandonano. Una fuga continua, incessante, in larga misura dovuta alla persistenza di gravi violazioni dei diritti umani.
Nell'Unione europea, lo scorso anno, gli eritrei richiedenti asilo hanno ottenuto lo status di rifugiato nel 69% dei casi, mentre un ulteriore 27% ha ottenuto una protezione sussidiaria. Il Parlamento europeo ha approvato nell'ultima sessione di Strasburgo, una risoluzione che è una sorta di compendio delle nefandezze che vengono compiute in Eritrea. Molti, soprattutto giovani, varcano la frontiera e il regime si vendica sulle loro famiglie rimaste in patria imponendo loro una pesante ammenda, una vera e propria estorsione. Un'imposizione in violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite "utilizzata per finanziare gruppi armati nei paesi vicini, destabilizzando in tal modo la regione".
Questa è la cornice dentro la quale si svolge la vita di 6 milioni e mezzo di abitanti, la patria del cofirmatario di questo scritto, don Mussie Zerai, il religioso che dal 1995 ha prestato opera di assistenza a tutti i connazionali che hanno attraversato il Mediterraneo verso una terra di salvezza europea e che per questo motivo è stato proposto per il Nobel.
Quando si tratta di regimi repressivi l'elenco dei misfatti è sempre lungo e terribile. Dopo le "presidenziali" che hanno portato al potere Isaias Afewerki si è avverata una sospensione dei diritti democratici, niente applicazione della Costituzione del 1997, sostituzione della magistratura con Corti Speciali, avvio di una coscrizione di massa e duratura per centinaia di migliaia di soldati. Una leva obbligatoria che si perpetua negli anni e che riguarda anche uomini di 50-60 anni. Questa struttura consente al regime del presidente di utilizzare le forze armate anche come manodopera a costo zero per lavori pubblici o di interesse della casta al potere. Chi ha potuto e può ancora, lascia questo inferno, questo Stato-prigione tanto che le cifre dicono che un eritreo su 7/8 ormai vive all'estero. Si fugge da Asmara e dintorni per sottrarsi alla repressione e alle condizioni economiche e sociali assolutamente catastrofiche. L'Eritrea è ormai uno dei Paesi più poveri del mondo con un Pil procapite di 800 dollari all'anno, nemmeno 70 dollari al mese. Una buona parte dei residenti sopravvive con le rimesse degli espatriati, praticamente una delle voci più significative dell'economia nazionale colpita dalla persistente siccità e in generale dal cambiamento climatico che potrebbe provocare un nuovo e grande esodo di profughi da quella che Human Rights Watch ha definito una delle più feroci dittature del mondo che può vantare, si fa per dire, ben 361 tra carceri e centri di detenzione (in Italia, con 60 milioni di abitanti, ci sono 205 carceri). Nel nostro paese sono sbarcati l'anno scorso oltre 150 mila profughi. Il 26% di questi, pari a 40 mila, sono eritrei, e di giovane età. Scappa chi ha più forza e voglia di lottare nella speranza di riuscire.

Il rapporto tra l'Unione europea e l'Eritrea, è fondato su un accordo di partenariato che dura da anni e anche su programmi di assistenza ma da tempo le forze di opposizione chiedono che l'Europa e anche i singoli Paesi Ue cessino di coltivare l'idea che il regime di Afewerki possa essere tenuto buono con atti di blandizia in cambio di un allentamento del clima di illegalità. Non è questa la strada che possa portare a un ritorno della normalità civile e democratica. Il Parlamento europeo ha chiesto la fine di tutte le pratiche violente in materia di leva militare e l'accesso nel paese di esperti Onu e dell'OUA che avviino un'inchiesta sulla violazione dei diritti umani. È l'atto più importante che si deve svolgere. Quello fondamentale da cui ripartire per mettere in sicurezza tutti i diritti fondamentali cosi come la stessa struttura dello Stato colpita nel funzionamento e nelle pratiche di governo.
Il Parlamento, infatti, chiede al governo di Asmara il ripristino di una gestione corretta e trasparente delle finanze pubbliche, il varo di un vero bilancio nazionale e l'autonomia della Banca centrale, libera dal controllo militare e sottratta ai pericolosi traffici sul finanziamento del terrorismo nella regione. L'Agenzia Habesha invoca anche l'apertura di un tavolo di pace tra Eritrea ed Etiopia, i due stati confinanti che si trascinano dal 1998 in un'estenuante guerra non combattuta sul campo ma egualmente esiziale.
La fine dello scontro tra Asmara e Addis Abeba potrebbe anche spazzare via quel clima di emergenza e di forte repressione vigente in Eritrea giustificato dai venti di guerra. Il regime di Afewerki ha, infatti, sempre motivato il prolungato giro di vite e la totale militarizzazione del Paese con la condizione di continua ostilità verso l'Etiopia. Per quanto riguarda quest'aspetto molto sensibile, a nome del Gruppo dei Socialisti e Democratici, mi recherò in Etiopia per invitare il governo di Addis Abeba ad adoperarsi per una soluzione pacifica che porterebbe a stabilizzare non solo i due paesi ma l'intera regione del Corno d'Africa.

Appello a Gibuti perché liberi 19 prigionieri di guerra eritrei

Un calvario lungo 8 anni
Appello a Gibuti perché liberi 19 prigionieri di guerra eritrei
  
Prigionieri di guerra a Gibuti da otto anni. Anche se la guerra è finita sei anni fa, nel 2010. E’ il calvario di 19 soldati eritrei, dimenticati e abbandonati da tutti. A cominciare dal governo di Asmara che li ha mandati a combattere e che adesso, in pratica, nega persino che esistano.


La sorte terribile di questi militari, attualmente detenuti nel carcere di Negad, è un episodio del lunghissimo conflitto scatenato dal dittatore eritreo Isaias Afewerki contro Gibuti nel 1996 per una controversia di confine. Sono stati catturati tra il 10 e il 13 giugno del 2008 nel corso di uno dei tanti scontri che si succedevano periodicamente lungo la linea del fronte. Nel 2010, con la mediazione del Qatar, si è finalmente firmata la pace. Era da aspettarsi che a quel punto i prigionieri di guerra delle due parti venissero liberati. Non è stato così.

Asmara non ha rilasciato i militari detenuti nei campi di concentramento, negando anzi con forza che in territorio eritreo ci fossero militari di Gibuti prigionieri. Non ha cambiato atteggiamento nemmeno quando a smentire queste affermazioni è intervenuta una inchiesta del Consiglio di sicurezza dell’Onu, forte delle denunce di due soldati che, dopo una lunga prigionia, erano riusciti ad evadere e a raggiungere il Sudan, a oltre un anno di distanza dalla firma del trattato di pace. Gibuti, a sua volta, ha trattenuto i prigionieri eritrei come “arma di scambio” e, in definitiva, come ritorsione.

Sia da parte di Asmara che di Gibuti si tratta di una evidente violazione del diritto internazionale, ma finora nessuno ne ha chiesto conto. Nei giorni scorsi è intervenuta una novità. Sempre con la mediazione del Qatar, l’Eritrea  – smentendo in pratica se stessa e confermando il rapporto dell’Onu – ha deciso di rilasciare quattro soldati gibutini prigionieri di guerra, che aspettavano di essere liberati da ben sei anni. I familiari dei 19 militari eritrei in carcere a Negad hanno sperato che, sulla scia di questa decisione, anche i loro cari potessero tornare in libertà. Gibuti, invece, non ne ha rilasciato neanche uno. Anzi, il portavoce del governo ha negato che ci siano ancora nel paese militari catturati durante il conflitto con l’Eritrea. E, d’altra parte, anche Asmara è come se li avesse cancellati per sempre: non riconosce che Gibuti abbia prigionieri di guerra eritrei. Così il calvario continua: quei 19 eritrei, abbandonati anche dal loro stesso governo, sembrano condannati a restare in un centro di detenzione per un tempo indefinito. Molti di loro stanno perdendo ogni speranza e rischiano di cadere in uno stato di prostrazione senza uscita. Uno, in particolare, ha sviluppato gravi problemi di salute mentale.


Habeshia ha più volte implorato il governo di Gibuti di liberare e di consegnare alla Croce Rossa Internazionale tutti i prigionieri di guerra. Ora lancia un nuovo appello: allo stesso governo di Gibuti ma anche all’Unione Europea e soprattutto alla Francia, che ha stretti, antichi legami con la sua ex colonia nel Corno d’Africa. Si tratta di mettere fine a una ingiustizia palese e a una sofferenza che si trascina da otto anni: ne va ormai della vita stessa di 19 uomini “colpevoli” soltanto di essere stati mandati in guerra.

           don Mussie Zerai

lunedì 21 marzo 2016

Lettera al Presidente del Consiglio On Matteo Renzi

Un “sacrario” per le vittime di Lampedusa


Con il recente voto favorevole del Senato si è concluso l’iter per istituire la Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. E’ stato scelto, come è noto, il 3 ottobre, la data della terribile tragedia del 2013. “Una scelta – si legge nella relazione illustrativa della proposta – che nasce dall’esigenza di preservare nella memoria collettiva del Paese il ricordo del naufragio avvenuto al largo di Lampedusa nel quale morirono 366 migranti”.
E’  una decisione molto attesa e importante, specie in questo periodo di crisi e di estrema incertezza nella politica di accoglienza, con enormi, spesso incomprensibili contraddizioni e “chiusure” nei confronti dei profughi, dei richiedenti asilo e dei migranti che bussano alle porte dell’Italia e dell’Unione Europea in nome del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Quei diritti inalienabili che sono alla base, il fondamento stesso, di ogni democrazia.
L’agenzia Habeshia chiede tuttavia di avere la sensibilità e il coraggio di compiere un ulteriore passo nella direzione imboccata al Senato.
I resti delle 366 vittime del naufragio del 3 ottobre 2013 – quelle identificate e quelle ancora senza un nome – sono sparsi in diversi cimiteri della Sicilia. La proposta di Habeshia è di riunire quelle donne e quegli uomini in un unico luogo: farli riposare insieme come insieme, purtroppo, sono morti e come insieme, fino a quella tragica alba, hanno accarezzato il sogno di una vita libera e dignitosa,  un futuro migliore per sé e per i propri figli.

Se sarà possibile e se il Comune sarà d’accordo, si potrebbe trovare un’area apposita nel cimitero di Lampedusa. Altrimenti, in una città della Sicilia, magari uno di quei porti della costa meridionale dove continuano ad arrivare migliaia di giovani che inseguono le stesse speranze dei fratelli che li hanno preceduti e che non ce l’hanno fatta. Si creerebbe in questo modo come un piccolo sacrario dell’immigrazione, dove pregare, portare un fiore, riflettere.
Questa richiesta è dettata essenzialmente da due considerazioni.
La prima nasce da una esigenza di umana pietà: dare ai familiari, ai parenti, agli amici delle vittime un punto di riferimento dove poter “elaborare il lutto”: piangere e ricordare i propri cari per quel bisogno naturale, radicato in ogni cuore, di mantenere vivi certi legami affettivi al di là della morte stessa.
In secondo luogo, proprio questo piccolo sacrario può conferire più consistenza e spessore alla Giornata della Memoria che è stata appena istituita, dando voce e concretezza all’esigenza di legare i ricordi a luoghi, episodi, circostanze, persone. In una parola, a un simbolo capace di riassumere i sentimenti e, insieme, il senso di giustizia che ciascuno porta con sé in un angolo della propria coscienza.
Habeshia è certa di interpretare, con questa richiesta, il sentire comune e la volontà di tutti i familiari e gli amici delle vittime: quelle di Lampedusa in particolare, ma anche le altre decine di migliaia che si sono perse nel Mediterraneo in questi anni. Di più: accogliere questa richiesta sarebbe certamente un segnale molto significativo anche per tutte le donne e gli uomini che, nella loro fuga per la vita dall’Africa e dal Medio Oriente, sperano di trovare accoglienza in Europa o, più in generale, nel Nord del mondo, per salvarsi da guerre, terrorismo, persecuzioni, siccità e carestia, disastri ecologici e ambientali, fame e miseria endemica. E, nel caso specifico dell’Eritrea, da cui venivano ben 360 delle 366 vittime del tre ottobre 2013, un monito costante della tragedia in cui la dittatura ha precipitato il paese e la sua gente.
Grazie per l’attenzione che vorrete dedicare alla nostra proposta. Restiamo ovviamente a disposizione per qualsiasi chiarimento. Cordiali saluti,





                                                                 don Mussie Zerai

                                                      Presidente dell’agenzia Habeshia




Roma, 18 marzo 2016

mercoledì 16 marzo 2016

Migranti, il 3 ottobre sarà la Giornata della memoria

Il Senato approva. Sarà celebrata nel giorno dell’anniversario della tragedia di Lampedusa in cui persero la vita 368 migranti. Brhane (Comitato 3 ottobre): "Ora spieghiamo ai giovani questa tragedia". Grasso: "Ancora troppe morti in mare". Boldrini: "Segno di civiltà". Unhcr: "Momento di riflessione"

16 marzo 2016
ROMA – Il 3 ottobre sarà la Giornata della memoria, in ricordo di tutte le vittime dell’immigrazione. Questa mattina è arrivato l’ok definitivo del Senato. Hanno votato a favore 143 senatori, mentre 9 sono stati i no e 69 gli astenuti. Il provvedimento ora è legge. La Giornata in memoria delle vittime dell''immigrazione sarà celebrata in tutta Italia nell’ anniversario della tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando a causa del naufragio di una imbarcazione libica usata per il trasporto di migranti vi furono 368 morti accertati e circa 20 dispersi.



"Per noi quella di oggi è una grande vittoria - sottolinea soddisfatto ed emozionato Tareke Brhane, portave del Comitato 3 ottobre, - ed è soprattuto un riconoscimento importante per il dolore di tutti i familiari delle vittime, ma anche per il lavoro fatto in questi anni dalle organizzazioni e dalla sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini. Sono passati 854 giorni dalla tragedia, sono stati giorni non facili, in cui abbiamo dovuto contare tante altre vittime. La Giornata della memoria servirà a ricordare tutto questo. Per noi oggi non è la fine ma l'inizio di un percorso - aggiunge -: vogliamo spiegare ai giovani quello che è successo tre anni fa e che purtroppo succede ancora troppo spesso". Anche Branhe è arrivato in Italia via mare, e oggi è un rifugiato politico nel nostro paese: "per me è un'emozione fortissima a livello anche personale, perché so cosa significa rischiare la vita in mare". Il Comitato 3 Ottobre aveva presentato la proposta di legge a novembre 2013. I primi firmatari sono stati Ermete Realacci, Paolo Beni e Khalid Chaouki.
Soddisfazione è stata espressa anche dal presidente del Senato Pietro Grasso: ''la Repubblica riconosce il giorno 3 ottobre quale Giornata nazionale in memoria delle vittime dell''immigrazione, di seguito denominata ''Giornata nazionale'', al fine di conservare e di rinnovare la memoria di quanti hanno perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro Paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria - scrive  sul suo profilo Facebook - Era il 3 ottobre del 2013 quando un barcone affondò vicino a Lampedusa: solo quel giorno morirono 366 persone- ricorda Grasso- dall'inizio del 2015 sono state circa 4.200 le vittime nel Mediterraneo. Fermiamoci un solo istante, proviamo a scomporre questo numero enorme in tante singole persone e ad associare ad ognuna un nome, un volto, desideri, sogni, paure, debolezze: così possiamo capire quanto grande sia la tragedia che si consuma giorno dopo giorno a largo delle nostre coste". I barconi "affondano anche sotto il peso del fardello delle storie di chi fugge da orribili tragedie, da guerre, da povertà assoluta. Sono uomini e donne come noi che però non hanno più nulla e che cercano disperatamente un futuro- dice il presidente del Senato- l'Europa deve superare egoismi e divisioni: dobbiamo fare la nostra parte, ricordare le vittime ma, soprattutto, agire per evitare che altre migliaia di persone trovino la morte nei nostri mari". "L'approvazione oggi della legge che istituisce la Giornata per la memoria vittime migranti è un segno civiltà del nostro Parlamento"ha scritto su Twitter la presidente della Camera, Laura Boldrini.
 
L'Unhcr: "Momento di profonda riflessione"
. Secondo L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiat, “l’approvazione di tale legge arriva in un momento storico senza precedenti per il Mediterraneo e l’Europa intera”. “L’istituzione ufficiale di una giornata della memoria e dell’accoglienza – dichiara Laurens Jolles, delegato Unhcr per il Sud Europa – rappresenta un passo importante per ricordare tutte le vittime dell’immigrazione e una grande opportunità per la scuola italiana per affrontare il tema dell’asilo e dell’integrazione. Dal 3 ottobre 2013 ad oggi l’Unhcr stima che oltre 8 mila persone abbiano perso la vita in mare di cui circa 450 solo nei primi mesi del 2016. Finora quest’anno oltre 153 mila persone, di cui un terzo bambini, hanno attraversato il Mediterraneo e il 96% di loro proviene dai 10 principali paesi produttori di rifugiati”. L’Unhcr auspica che la Giornata della memoria e dell’accoglienza “promuova una profonda riflessione sulla istituzione di vie legali che consentano alle persone in fuga di arrivare in Europa senza rischiare la vita in mare”.

Save the Children: “La Giornata si traduca in un impegno concreto concreto di accoglienza”
. Il direttore dei programmi Italia-Europa di Save the Children, Raffaela Milano, afferma: “Accogliamo con soddisfazione la notizia dell’istituzione del 3 ottobre come Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione approvata oggi dal Senato, che assume un significato simbolico perché votata alla vigilia di un vertice europeo di grande valenza, dal quale attendiamo una risposta concreta all’emergenza umanitaria in atto”.
Da quel tragico 3 ottobre, l’Italia ha assunto un forte impegno nel salvataggio delle vite umane. “Ciononostante – precisa la Milano -, ancora molto rimane da fare. Il dramma dei migranti continua a perpetrarsi davanti ai nostri occhi, dentro ai confini europei. Non possiamo ignorare le ripetute violazioni dei diritti umani e la chiusura arbitraria delle frontiere, che provocano grande sofferenza e deprivazione per i migranti, e le morti in mare, che rimangono purtroppo una terribile realtà all’ordine del giorno. Solo ponendo fine al susseguirsi di questi tragici eventi con politiche adeguate di accoglienza a livello europeo si coglierebbe davvero il senso più profondo di questa Giornata”. 
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Lettera Appello al Presidente del Consiglio Matteo Renzi

Comunicato stampa del 16 marzo 2016


Oxfam, Acli, ARCI, Asgi, Caritas, Centro Astalli, Consiglio Italiano per i Rifugiati, Medu e Senza Confine scrivono al presidente del Consiglio: “I respingimenti collettivi creano tragedie, si faccia promotore di una politica migratoria in grado di mettere fine alla disastrosa situazione umanitaria creatasi in Grecia e nei Balcani e di garantire il diritto alla protezione internazionale sancito dalle normative europee e dalla convenzione di Ginevra”
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Dopo giorni in cui la pressione dei profughi bloccati ai confini dell'Europa sulla rotta balcanica ha provocato atti estremi e rischia di esplodere in maniera ancora più dolorosa, Oxfam - insieme alle associazioni Acli ,Arci, Asgi, Caritas, Centro Astalli, Consiglio Italiano per i Rifugiati, Medu e Senza Confine- ha inviato una lettera appello al Presidente del Consiglio Matteo Renzi affinché, in occasione del prossimo Consiglio europeo che si terrà il 17 e 18 marzo, si faccia promotore di una politica migratoria in grado di mettere fine alla disastrosa situazione umanitaria creatasi in Grecia e nei Balcani e di garantire il diritto alla protezione internazionale sancito dalle normative europee e dalla convenzione di Ginevra.
   
L'appello chiede al premier italiano di promuovere una politica che dica basta ai respingimenti collettivi verso i paesi di origine e di transito e garantisca a tutti i migranti l’accesso a una piena e chiara informazione sulla possibilità di chiedere protezione internazionale.

Le associazioni chiedono, inoltre, che venga data una risposta alla crisi umanitaria in Grecia, garantendo la protezione delle persone in viaggio, soprattutto quella dei più vulnerabili e che si discuta concretamente sull’apertura di canali legali, sia riservati ai richiedenti protezione internazionale che alla migrazione per lavoro. Queste azioni rappresentano per le organizzazioni promotrici dell'appello “l’unica risposta possibile per evitare che le persone seguano rotte pericolose e illegali e per smantellare le reti di trafficanti”.
I negoziati in corso tra Unione europea e Turchia per il respingimento di tutti i migranti giunti sulle coste greche, vengono definiti nell'appello “una violazione senza precedenti del diritto europeo alla protezione internazionale e della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati”.

I principi fondanti l'Unione europea non permettono di stabilire respingimenti collettivi di tutti i migranti verso l'ultimo paese di transito né tanto meno la possibilità di rinviare tutti i richiedenti asilo verso un paese terzo considerato sicuro – sottolinea la lettera - al contrario, prevedono l’accesso alla procedura di protezione internazionale anche ai valichi di frontiera, nonché nella acque territoriali e delle zone di transito”.

Come e chi deciderà che le persone respinte sono migranti irregolari? Seguendo quali procedure e applicando quali garanzie, in una situazione al collasso come quella greca?”, si chiedono le associazioni in relazione agli accordi in discussione.

Sulla parte dell'accordo che prevede che siano respinti anche i cittadini siriani, in quanto oggetto di uno scambio con altri siriani provenienti da campi profughi in Turchia, la lettera specifica come sia “inaccettabile vincolare i programmi di reinsediamento al respingimento di un pari numero di migranti irregolari, come se le persone fossero pacchi da spostare, prive di bisogni e di diritti”.
Le associazioni sottolineano inoltre come la Turchia non possa essere definita un paese sicuro secondo le norme dell’Unione europea e non riconosce ai profughi siriani la possibilità di accedere allo status di rifugiato.

Ufficio stampa
A.S.G.I. - Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione
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