venerdì 11 settembre 2015

Fuga per la vita

Agenzia Habeshia. 
Profughi. Possibili soluzioni
Le soluzioni possibili per porre fine alla catastrofe umanitaria costituita dall’esodo di milioni di profughi in fuga da guerre, dittature, persecuzioni, terrorismo, carestie, miseria e fame endemica, disastri ambientali, dissoluzione degli Stati d’origine, nascono dall’analisi delle cause stesse che la provocano.
Il problema va esaminato sotto due aspetti.
– Quello immediato (che richiede interventi tempestivi, a brevissimo, breve e medio termine), costituito dalla marea montante di arrivi e, soprattutto, dalla strage crescente di uomini e donne provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, i quali, in mancanza di alternative legali, sono costretti ad affidare la propria vita ai trafficanti di uomini per affrontare prima il viaggio a terra attraverso il Sahara fino alla costa nord africana e poi la traversata del Mediterraneo su rottami di barche da pesca e gommoni. Si tratta, come è noto, di una escalation di vittime impressionante: 25 mila negli ultimi quindici anni, circa 3.600 solo lo scorso anno (tra morti in mare e morti a terra, prima di arrivare alla costa mediterranea), quasi 2.600 quest’anno, dal primo gennaio a oggi.
– Quello, a lungo termine, della pacificazione e stabilizzazione dei paesi e delle regioni da cui arriva la grande maggioranza dei profughi, in modo da eliminare alla radice le cause che spingono milioni di donne e uomini a lasciare il proprio paese in quella che si configura a tutti gli effetti come una autentica fuga per la vita. 


Interventi a breve e medio termine

Il punto fondamentale, per sottrarre i profughi al ricatto degli scafisti e al traffico di esseri umani, è organizzare un sistema di immigrazione legale. Si tratta di agire essenzialmente su quattro punti, strettamente connessi tra di loro e da attuare insieme. Il progetto non starebbe in piedi in mancanza anche di uno solo dei quattro: canali umanitari, ambasciate “aperte”, condizioni di vita dignitose per i profughi nei paesi di transito e prima sosta, un nuovo sistema di accoglienza in Europa.
– Canali umanitari. Vanno organizzati sistemi di soccorso e immigrazione legale nel più breve tempo possibile per le situazioni più a rischio: ponti aerei e navali per trasferire e reinsediare i profughi e i richiedenti asilo la cui esistenza risulta in pericolo nei paesi in cui si trovano attualmente. Ad esempio, bambini, donne sole, malati, feriti, perseguitati, ecc. O anche profughi ospitati attualmente in paesi giunti al limite delle proprie possibilità: il caso più evidente è quello del Libano che, con meno di 5 milioni di abitanti, ha aperto i propri confini a oltre un milione di profughi e richiedenti asilo. L’Unhcr insiste da tempo su questo tipo di intervento: già negli anni passati ha prospettato programmi di reinsediamento per decine di migliaia di persone, partendo dai “soggetti più deboli” ed ha ripetuto l’appello anche poche settimane fa. La richiesta – salvo poche, significative eccezioni – è rimasta finora inascoltata. Si potrebbe partire come base iniziale proprio da questi programmi Unhcr già in cantiere.
– Ambasciate aperte. L’idea è quella di concedere la possibilità ai profughi di presentare la richiesta di asilo direttamente presso la rete di ambasciate degli Stati membri dell’Unione Europea esistenti nei paesi africani di transito e prima sosta più affidabili e dove ci siano sufficienti condizioni di sicurezza e rispetto dei diritti umani. Non più, dunque, dopo l’arrivo in Italia o in Europa ma prima ancora di partire. E’ chiaro che dovrebbero aderire, se non tutti, quanto meno la grande maggioranza dei governi europei, in modo da non scaricare il problema solo su pochissimi Stati. Presso ogni ambasciata o consolato dovrebbe insediarsi a tale scopo una apposita commissione, d’intesa con l’Unhcr.
– Condizioni dei profughi nei paesi di transito e prima sosta. Per i profughi che decidono di restare nei paesi di prima sosta e per quelli in attesa che venga presentata ed esaminata la richiesta di asilo (o di un’altra qualsiasi forma di protezione internazionale), va garantita una condizione di vita dignitosa e sicura. Occorre studiare, a questo scopo, interventi europei a sostegno della politica di asilo e aiuto, d’intesa e con la collaborazione dei paesi ospitanti, i quali ovviamente non vanno gravati da soli delle spese di alloggio, logistica, assistenza, ecc., oltre che di inserimento sociale per coloro che scelgono di restare, anziché puntare verso l’Europa, che sono in realtà la grande maggioranza. Si potrebbero efficacemente utilizzare, in questo contesto, i fondi disponibili del sistema di cooperazione.
E’ chiaro che per attuare un programma di questo genere, occorre però scegliere (come anticipato al punto due) Stati “affidabili” per il rispetto dei diritti umani e la sicurezza: non avrebbe senso – come fa invece il Processo di Khartoum – chiedere  la collaborazione, ad esempio, di Stati di assai dubbia democrazia o addirittura di dittature. Quelle stesse dittature che costringono i profughi alla “fuga per la vita”. E’ il caso, ad esempio, del Sudan, il cui presidente, al Bashir, è colpito da un ordine di cattura internazionale per delitti di lesa umanità e le cui forze di polizia e militari anche di recente si sono rese protagoniste di razzie, violenze, persecuzioni contro popolazioni ritenute vicine a forze ribelli. In particolare nella regione del Darfur. Per non dire delle accuse di complicità con i trafficanti di uomini più volte formulate da numerosi profughi nei confronti di esponenti di vario livello dell’apparato di sicurezza del regime. E’ questo il caso anche dell’Egitto, dove l’ingresso clandestino nel paese è da sempre considerato un reato punibile con il carcere (seguito dal rimpatrio forzato) e dove le condizioni sono ulteriormente peggiorate con la dittatura del generale Al Sisi. Lo stesso vale per Isaias Afewerki, il dittatore dell’Eritrea, il paese dal quale, in proporzione agli abitanti (5 milioni), in questo momento fugge  il più alto numero di profughi, in particolare giovanissimi: degli oltre 110 mila migranti arrivati in Italia quest’anno, circa il 25 per cento sono appunto eritrei, con un trend in crescita di circa due punti percentuali rispetto allo scorso anno (23 per cento su un totale di circa 170 mila arrivi).
– Sistema unico di accoglienza europeo. Occorre arrivare nel più breve tempo possibile a una sistema unico di accoglienza, condiviso e attuato da tutti gli Stati dell’Unione Europea, con gli stessi standard di trattamento e le stesse occasioni e opportunità di inserimento sociale in ciascun paese, sul modello dei sistemi nazionali attualmente migliori. Si tratta di creare, in sostanza, condizioni omogenee, stabilendo un meccanismo di quote per ogni paese, in modo che i flussi risultino equilibrati e controllati, tenendo conto non solo dell’estensione geografica, della popolazione, dell’economia, delle possibilità di lavoro, ecc. di ogni paese, ma anche di eventuali situazioni particolari: ad esempio, presenza di familiari e amici dei profughi, contatti precedenti (di lavoro, di studio, ecc.) con un certo paese, richieste di particolari professionalità, ecc. Va studiato anche un sistema di perequazione e sostegno in favore dei paesi europei meno “appetibili”.
In questo modo il regolamento Dublino 3 verrebbe superato automaticamente, ma nelle more dell’attuazione del nuovo sistema di accoglienza unico, va pensata quanto meno una modifica per eliminarne gli aspetti più contraddittori e penalizzanti. Appare necessario, inoltre, procedere subito a una riforma migliorativa dei sistemi di accoglienza attualmente più inefficienti o addirittura penalizzanti, come quelli italiano e greco.

A queste quattro linee guida fondamentali, l’una strettamente connessa all’altra per il funzionamento stesso del sistema, vanno affiancati interventi collaterali realizzabili a breve scadenza.
 – Attuazione immediata, in tutto il Mediterraneo, di una operazione di soccorso sul modello di Mare Nostrum, con un sufficiente schieramento di mezzi e uomini, con le stesse regole d’ingaggio del progetto attuato dal primo novembre 2013 al primo novembre 2014, con il contributo di tutti gli Stati membri dell’Unione Europea (o del più alto numero possibile) e sotto l’egida dell’Onu.
– Inversione degli indirizzi di spesa della politica unitaria e dei singoli Stati per l’immigrazione. Anche l’ultimo stanziamento dell’Unione per le politiche migratorie (7 miliardi di euro) è destinato in maggioranza (55 per cento) ad interventi di sicurezza, controllo dei confini e vigilanza e solo il 45 per cento all’accoglienza vera e propria. Occorre arrivare quanto prima a ribaltare questa proporzione.
– Revoca del Processo di Khartoum, che rischia di risolversi in una ulteriore esternalizzazione dei confini della Fortezza Europa, spostati addirittura a sud del Sahara, delegando il controllo dell’immigrazione in tutta l’Africa Orientale a Stati di assai dubbia democrazia, quando non addirittura a vere e proprie dittature, senza curarsi della sorte a cui andranno incontro i profughi. Revoca, di conseguenza, anche dei patti bilaterali tra singoli governi europei e singoli Stati della sponda sud del Mediterraneo, concepiti con lo stesso criterio e gli stessi obiettivi del Processo di Khartoum.
– Programma di indagini e interventi internazionali congiunti contro il traffico di esseri umani (azioni coordinate tra i vari governi interessati, Interpol, ecc.). In Italia si è data grande enfasi all’arresto di centinaia di presunti scafisti. In realtà gli scafisti sono in genere solo l’ultimo anello dell’organizzazione criminale che gestisce il “mercato”: quasi sempre “manovalanza”. Quasi nulla si è fatto invece per risalire ai vertici delle organizzazioni dei trafficanti, con inchieste transnazionali, condotte sia in Europa che nei paesi di transito e d’origine dei profughi.


Interventi a lungo termine

Nuova politica generale del Nord del mondo nei confronti del Sud del mondo, tenendo conto, come principio base, della “parità” e del rispetto dei diritti umani e dei diritti dei paesi un tempo definiti “sottosviluppati”, quasi sempre ex colonie delle potenze occidentali.
Buona parte delle numerose situazioni di crisi che provocano l’emigrazione e la fuga di migliaia di persone dal proprio paese sono il frutto di interventi e scelte dettate dalla politica di “soggezione” condotta dall’Europa e, in generale, dal Nord del mondo. Ciò è particolarmente evidente in Stati totalmente destabilizzati da guerre e conflitti interni (come Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Mali, ecc.) ma anche in altre realtà dove la sovranità e la libertà stessa della popolazione sono messe in discussione e minate dalla politica occidentale, con la collaborazione di governi poco o addirittura affatto rappresentativi della volontà popolare e degli interessi collettivi, ma invece sensibili a equilibri economici e geopolitici “esterni”. Non di rado, insomma, alla base di guerre, tensioni, regimi poco democratici o addirittura dittature “di comodo”, c’è proprio una politica dettata da interessi occidentali o comunque da un sistema di sviluppo che si basa sostanzialmente sul controllo e spesso addirittura sulla rapina delle materie prime e delle risorse dei paesi più deboli.
Il punto è invertire questa tendenza, attuando la scelta di “andare verso le periferie” che papa Francesco ha indicato fin dal suo insediamento, ribadendola subito dopo con la decisione di recarsi, per il suo primo viaggio pastorale (luglio 2013), sull’isola di Lampedusa, dove ha lanciato l’appello “ai potenti della terra” ad ascoltare il grido degli “ultimi della terra”. E’ certamente un discorso di prospettiva, lungo e difficile, ma si possono fin da ora prendere decisioni che segnino un punto di svolta, dando credibilità e forza alla volontà di cambiamento. Ne citiamo quattro, come semplici esempi:
– Inserimento della clausola del rispetto dei diritti umani e dei diritti dei profughi nei contratti economici, commerciali, ecc. e nei progetti di collaborazione con i paesi di provenienza, di accoglienza provvisoria e di transito dei rifugiati.
– Applicazione rigorosa (con controlli internazionali) dell’embargo sulla fornitura di armi ai paesi che non rispettano i diritti umani. A proposito dell’Eritrea, un  rapporto dell’Onu ha chiamato in causa pesantemente l’Italia per la fornitura, da parte di varie aziende nazionali, di armi e di materiale che può essere utilizzato a fini bellici, alla dittatura di Isaias Afewerki. Oltre a non rispettare l’embargo, l’Italia avrebbe violato la legge 185 del 1990 che vieta di vendere armi alle nazioni in guerra. Nonostante il cessate il fuoco, infatti, l’Eritrea è ancora ufficialmente in guerra contro l’Etiopia, senza contare che Asmara è accusata da più parti di armare e di alimentare la guerriglia nell’Ogaden e in Somalia.
– Isolamento internazionale dei regimi che non rispettano le libertà e i diritti fondamentali.

– Proposte di interventi di mediazione “super partes”, sotto l’egida dell’Onu, per cercare di risolvere almeno alcuni dei numerosi conflitti in corso, che spesso si trascinano da anni senza alcuna prospettiva.

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