giovedì 23 luglio 2015

UE: Con la dittatura contro esuli e profughi:


stravolta la durissima realtà dell’Eritrea
Nessun diritto di asilo politico per gli eritrei nel Regno Unito. Il Governo inglese sembra orientato a cambiare totalmente la sua linea politica nei confronti dei profughi che fuggono dalla dittatura di Asmara. La notizia viene da fonti vicine all’Home Office, il Ministero degli Interni, sulla scia di una visita fatta da una commissione britannica in Eritrea, nel dicembre 2014, per verificare la situazione del paese. Visita in seguito alla quale sono stati pubblicati due documenti ufficiali che riguardano in particolare l’immigrazione clandestina e il servizio militare. Due problemi strettamente connessi: è proprio il servizio di leva, praticamente a tempo indeterminato, uno degli strumenti principali della totale militarizzazione della società eritrea e, di conseguenza, uno dei fattori che più spingono i giovani, ragazzi e ragazze, a fuggire oltreconfine, per non vedersi rubare dal regime ogni speranza di futuro e, anzi, la vita stessa. “Per non essere – come ha dichiarato una diciottenne arrivata in Italia circa un anno fa – schiavi della dittatura”.
La commissione inviata da Londra è arrivata a conclusioni diverse, addirittura opposte al quadro tremendo descritto da migliaia di profughi e denunciato da anni da parte di organizzazioni internazionali come Amnesty, Human Rights Watch, Reporter senza Frontiere e dalla stessa Unhcr, la Commissione dell’Onu per i rifugiati. Il rapporto redatto al rientro da Asmara insiste in particolare su tre punti:
– Il servizio militare non rappresenta una persecuzione, un trattamento degradante o un lavoro forzato e non ha durata indefinita, ma va da un minimo di 18 mesi a un massimo di 4 anni, quindi alle persone che fuggono per evitarlo non sarà concesso lo status di rifugiato in Gran Bretagna.
– Coloro che rifiutano di intraprendere il servizio militare non sono visti in Eritrea come traditori o oppositori politici e di conseguenza è improbabile che queste persone vengano arrestate al loro ritorno. Il provvedimento più probabile è l’obbligo di tornare a prestare il servizio militare.
– Una legge del governo eritreo prevede che coloro i quali sono emigrati e vivono all’estero debbano pagare un’imposta del 2 per cento sul loro reddito al paese d’origine. Questo è considerato un requisito ragionevole, a condizione che la richiesta venga fatta senza minaccia di violenza e in ogni caso il rifiuto o il mancato rispetto di tale volontà non può dar luogo di per sé a un fondato timore di persecuzione in caso di ritorno.
La conclusione è che “solo coloro che sono stati politicamente attivi e molto esposti, quindi facilmente identificabili, nell’opposizione al governo eritreo, possono essere considerati a rischio nel loro paese”.     
Sulla stessa lunghezza d’onda di Londra si sono poste la Danimarca e, secondo alcuni organi di stampa, anche la Norvegia. L’atteggiamento norvegese appare, in verità, più soft e anzi per molti versi differente, quasi opposto. Oslo non ha chiuso le frontiere ai profughi eritrei, ma da quest’anno ha adottato criteri più restrittivi nell’esame delle domande di asilo, tanto che il tasso dei rifiuti è passato dal 13 per cento del 2014 al 23 per cento dei primi sei mesi del 2015. La maggior parte dei “no”, tuttavia, riguarda persone ritenute in realtà vicine o comunque non ostili al regime, che tentano di “camuffarsi” da profughi. Anzi, secondo fonti vicine alla diaspora, si conducono accertamenti proprio su chi accetta di pagare l’imposta del 2 per cento o partecipa e sostiene manifestazioni pro regime di vario tipo, pur essendosi presentato come esule.
La Danimarca, invece, si basa su un rapporto analogo a quello inglese, pubblicato dalle autorità per l’immigrazione nell’ottobre del 2014, nel quale si afferma, in buona sostanza, che la situazione in Eritrea sarebbe grossomodo normale, senza pericoli particolari per i ragazzi fuggiti dal paese, anche se sono soggetti alla leva e, dunque, considerati “disertori” in tempo di guerra, visto il perdurare del conflitto con l’Etiopia. All’indomani della pubblicazione, questo rapporto ha fatto scalpore, anche perché si era nel pieno di una serie di critiche e denunce da parte della diaspora in seguito al Processo di Khartoum, l’accordo per il controllo dell’immigrazione firmato dall’Unione Europea e da dieci Stati dell’Africa Orientale. Ma le asserzioni contenute nel documento posto a fondamento della nuova politica di “chiusura” nei confronti dei profughi eritrei da parte di Copenaghen, sono state presto smontate da uno dei principali esperti citati dalle autorità danesi, il professor Gaim Kibreab, uno dei massimi esperti di studi sull’immigrazione, docente alla London’s South Bank University, il quale ha dichiarato senza mezzi termini che le sue affermazioni erano state mistificate o quanto meno riferite in modo erroneo nel rapporto, precisando di non avere dubbi che i giovani che lasciano l’Eritrea sono considerati traditori, imprigionati e sottoposto a torture, nel caso ritornino in patria.
Il nuovo rapporto inglese ora ricalca quello danese, nonostante la smentita del professor Gaim Kibreab. E arriva a conclusioni a dir poco discutibili. Non ha senso, ad esempio, dire che fuggire per non finire “preda” dell’esercito non è un motivo sufficiente per ottenere lo status di rifugiato, perché “il servizio militare non rappresenta una persecuzione, un trattamento degradante o un lavoro forzato”. Non voler servire in armi o come lavoratori-schiavi il regime, non si sa per quanto tempo, è di per sé un atto di opposizione politica. Ed è assurdo sostenere che sia una cosa tutto sommato normale l’obbligo, per tutti gli eritrei che vivono all’estero, di pagare ad Asmara il 2 per cento sul reddito: il regime, al di là del grosso flusso di denaro che incamera e che gli serve per rinforzare il proprio potere, usa questa imposta come strumento di pressione e ricatto nei confronti dei migranti e dei loro familiari rimasti in Eritrea. Una sorta di minaccia “sotterranea” che serve anche a individuare “amici” e “nemici”.
Ma, al di là di queste considerazioni, una netta smentita alle rosee affermazioni del Governo inglese arriva dalla fonte più insospettabile: la Commissione delle Nazioni Unite che ha indagato per oltre otto mesi sulla violazione dei diritti umani in Eritrea, pubblicando un rapporto reso noto verso la fine di giugno, proprio quando cioè la notizia sulla volontà di “chiusura” di Londra cominciava a circolare. Un rapporto che non lascia adito a dubbi su quello che accade in Eritrea: sulla situazione generale e, in particolare, proprio su alcuni dei punti che sono alla base della presa di posizione britannica.
Non c’è una sola delle centinaia di pagine della relazione che non suoni come un pesante atto d’accusa, a cominciare dal fatto che il paese è soggetto a un “governo del terrore”, improntato sulla “regola della paura”. Scendendo più nel dettaglio, le contestazioni sono numerosissime e pesantissime: cancellata la Costituzione democratica del 1997; perseguitata ogni forma di dissenso o di opposizione; incarcerazioni arbitrarie e immotivate; centinaia, migliaia di persone gettate in prigione senza alcuna accusa; prigionieri fatti sparire nel nulla, tanto che non si sa neppure se siano ancora in vita o no, inclusi i parlamentari del G-15, arrestati nel 2001 insieme a giornalisti, militari invisi al potere, sacerdoti e rappresentanti di gruppi religiosi; violenze, torture, uccisioni. E un servizio militare infinito, durante il quale, specie alle ragazze, può accadere di tutto. Un quadro orrendo, “tanto da poter parlare di crimini contro l’umanità”.
Ecco perché tanti giovani eritrei – ormai 5 mila al mese, secondo i dati Unhcr – sono costretti a scappare. Altroché “migranti economici”. L’atto d’accusa dell’Onu è la conferma totale delle denunce che la diaspora fa da anni. C’è da chiedersi, allora, da dove nasca questa presa di posizione inglese, che ha l’aria di una nuova apertura nei confronti del regime di Isaias Afewerki. Tutto lascia credere che abbia origine dagli stessi principi e dagli stessi interessi che hanno portato al Processo di Khartoum, l’accordo che coinvolge direttamente l’Eritrea (insieme ad altre dittature come quelle di Al Bashir in Sudan e di Al Sisi in Egitto) nel controllo dell’immigrazione: in pratica, si chiede ad Asmara di sbarrare totalmente le sue frontiere, accentuando ancora di più l’attuale situazione di stato-prigione in cambio di soldi. Tanti soldi: oltre 310 milioni di euro, che l’Unione Europea ha già promesso e che il commissario per l’immigrazione, Costantin Avramopoulos ha già giustificato, asserendo che per bloccare i flussi di migranti la Ue può accordarsi e collaborare anche con i dittatori.
A guidare questa politica, insieme a Londra, c’è Roma. Anzi, Roma più di Londra: alla base del Processo di Khartoum e della promessa dei 310 milioni di euro ci sono soprattutto “pressioni” del Governo italiano. Sempre con la “giustificazione” ufficiale che, nonostante tutto, si cerca di trattare con dittature come quella eritrea nella speranza di cambiare la situazione. E’ fin troppo facile ribattere che, in questo modo, si legittima in realtà, senza alcuna contropartita e senza porre alcuna condizione, il potere assoluto di Afewerki, a scapito innanzi tutto proprio delle migliaia di giovani che perseguita e costringe a scappare. Ma è la stessa Commissione Onu a smantellare quella “giustificazione”. Basta leggere una delle conclusioni del rapporto sull’Eritrea: “Nessuna forma di aiuto economico o di cooperazione servirà a migliorare la situazione fino a quando non sarà avviato un serio percorso di democrazia e rispetto delle libertà fondamentali”.
E’ esattamente quello che dicono da anni, inascoltati, gli eritrei della diaspora. Sono parole che dovrebbero far riflettere Roma, Londra e quanti altri Governi europei ed occidentali meditano di adottare la stessa politica di “apertura” nei confronti di Afewerki. In ogni caso, ora, dopo il rapporto delle Nazioni Unite, nessuno potrà dire di “non sapere”.
http://www.ohchr.org/EN/HRBodies/HRC/CoIEritrea/Pages/ReportCoIEritrea.aspx
 Agenzia Habeshia          

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