mercoledì 13 agosto 2014

Libia, centinaia di profughi schiavizzati dai miliziani per la guerra


Appello alla comunità internazionale



Dilaga in Libia la tragedia dei profughi sequestrati da miliziani delle varie fazioni in lotta e costretti come schiavi a trasportare in battaglia armi, munizioni e rifornimenti fin sulla linea del fuoco. Potenziali vittime di questo orrore sono tutti gli africani “neri” rimasti intrappolati nella guerra che sta travolgendo il paese: eritrei, somali, etiopi, sudanesi, maliani… Chiunque, insomma, arrivi di paesi del Corno d’Africa o dall’Africa sub sahariana. Notizie provenienti da varie parti del territorio libico segnalano che ci sono già stati numerosi feriti e sicuramente anche dei morti, come si evince da alcune testimonianze dirette e dal fatto che di diversi migranti catturati si è persa ogni traccia, probabilmente “spariti” nella fornace di una guerra che non hanno scelto e non li riguarda.
L’agenzia Habeshia ha già denunciato questo orrore alla comunità internazionale tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, segnalando che nel corso dei combattimenti in corso a Tripoli decine di giovani erano stati prelevati nelle loro case o bloccati per strada, mentre cercavano di fuggire dalle zone evacuate, per essere utilizzati come “ausiliari forzati” delle milizie. Impossibile sottrarsi: chiunque tentasse di fare resistenza veniva pestato a sangue e minacciato di morte.
Per molti versi, una situazione, per i migranti, ancora più grave di quella successiva alla rivoluzione del 2011 contro Gheddafi, quando ogni africano “nero” veniva considerato un mercenario al servizio del regime, perseguitato e imprigionato. Sono passate due settimane, ma non ha avuto risposte di nessun tipo la richiesta di un intervento urgente del Commissariato Onu, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Nel frattempo l’uso di profughi-schiavi in battaglia è diventata la norma.
Il caso più grave accade a Misurata, dove nella grande scuola di Kalelarim, in una zona denominata Bilkaria, sono detenuti centinaia tra uomini, donne e bambini, quasi tutti eritrei, sorpresi in varie fasi nel deserto mentre cercavano di raggiungere Tripoli e catturati spesso in circostanze drammatiche: per bloccarli i miliziani non hanno esitato a sparare, tanto che ci sono stati due morti e diversi feriti. I primi prigionieri hanno cominciato ad arrivare circa due mesi e mezzo fa e il flusso non si è mai interrotto. Si è così formato un grosso gruppo iniziale di 405 uomini, 103 donne e 18 bambini, via via cresciuto con nuovi arresti nell’ultimo mese. Oggi i prigionieri sono circa 700, costretti a vivere in condizioni estreme: maltrattamenti, soprusi, degrado, poco cibo e di pessima qualità, scarsissima persino l’acqua da bere. E nessun tipo di assistenza, neanche per i malati e i feriti, affidati unicamente alle cure di un paramedico che si fa vedere una sola volta alla settimana, in genere la domenica.
Si tratta di un autentico lager sotto il totale controllo dei miliziani, che ne hanno fatto una riserva inesauribile di portatori-schiavi di armi e munizioni in tutti gli scontri a fuoco che sconvolgono la regione. Hanno cominciato con un gruppo di ben 225 giovani, tutti uomini. Li hanno prelevati asserendo che sarebbero stati portati a lavorare: sono finiti, invece, in mezzo alla guerra. Per settimane non se ne è saputo più nulla, fino a che, qualche giorno fa, sono tornati al campo sette giovani feriti, che hanno raccontato l’orrore vissuto, riferendo anche che diversi loro compagni sono rimasti uccisi. Ma non è finita: i miliziani hanno sostituito i sette giovani feriti con altri 61 prigionieri, costringendoli a seguirli in battaglia. Di loro non si ha più notizia da quando hanno lasciato il lager.
E’ l’ennesimo crimine che si sta commettendo sulla pelle di profughi e richiedenti asilo abbandonati da tutti. Nessuno si preoccupa di far rispettare il loro diritto di essere tutelati da guerre, persecuzioni e abusi. Ne devono certamente rispondere i miliziani che li stanno schiavizzando, ma pesanti responsabilità, per queste atrocità subite dai profughi del Corno d’Africa e dell’Africa sub sahariana, gravano anche sui paesi che  hanno intrappolato migliaia e migliaia di giovani in una realtà come quella libica, con la loro politica volta a “esteriorizzare” e a spostare i confini europei sulla sponda meridionale del Mediterraneo e, ultimamente, anche più a sud. Quei Governi che hanno fatto di vari Stati africani, a cominciare dalla Libia, i gendarmi per il controllo dell’emigrazione, lasciandoli decidere della vita e della morte di chi è costretto a scappare dal proprio paese per sottrarsi a guerre, dittature, galera, persecuzioni, carestia e fame.
Per questo lanciamo un altro appello alla comunità e internazionale. Per l’ennesima volta e con ancora più forza chiediamo all’Onu, all’Unione Europea e agli Stati Uniti di intervenire al più presto per organizzare una o più vie di fuga per i migranti bloccati in Libia. E ci rivolgiamo in particolare all’Italia, in virtù dei suoi rapporti diretti con Tripoli, sia perché è l’unico Stato europeo ad aver mantenuto aperta la propria ambascia, sia per gli accordi bilaterali firmati ripetutamente con il governo libico, dai tempi di Gheddafi sino ad oggi. Al Governo, al ministero degli Esteri e all’ambasciatore italiani chiediamo, come primo intervento immediato, di tentare di bloccare con tutti i mezzi possibili i sequestri e l’uso dei profughi come “ausiliari-schiavi” nei combattimenti: è l’unico modo per fermare il massacro di migliaia di vite innocenti. Va ricordato, oltre tutto, che la Libia, pur non avendo mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla tutela dei diritti dei migranti, ha aderito a quella analoga voluta dell’Unione Africana. Finora non l’ha mai applicata: gli avvenimenti tragici di questi giorni dicono che è arrivato il momento per la comunità internazionale di pretenderne l’attuazione, coinvolgendo anche gli Stati africani. L’Italia, in questa fase di presidenza Ue, non può sottrarsi all’obbligo di tentare questa via, coinvolgendo l’intera Europa e aprendo contemporaneamente un corridoio umanitario per i gruppi di profughi più vulnerabili e bisognosi di protezione.

don Mussie Zerai

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