giovedì 15 maggio 2014

Libia, mattanza di profughi nei lager e nel deserto


di Emilio Drudi

Ancora migranti morti, inghiottiti dal Mediterraneo. Uomini, donne e bambini spariti in mare, senza una tomba e, assai spesso, senza neanche un nome. Sembra di rivivere le tragedie di Lampedusa e di Malta dell’ottobre scorso. Sono almeno 70 le vittime degli ultimi naufragi di barconi carichi di disperati: una cinquantina nelle acque libiche l’undici maggio e 17 a cento miglia a sud di Lampedusa il giorno dopo. Oltre a circa 200 dispersi, per i quali si è persa ormai ogni speranza. Ma sulla terraferma, in Libia, per i profughi forse va anche peggio. La vita non conta nulla: può dipendere dal capriccio di un miliziano fanatico o di un militare ubriaco. Da una crudeltà gratuita o da un gioco perverso. Come è accaduto nel centro di detenzione situato nei sobborghi di Gharyan, una città del distretto di Jabal al Garbi, nel nord ovest, famosa per la resistenza contro gli italiani nel 1911 e per la battaglia tra i ribelli e l’esercito di Gheddafi durante la rivoluzione del 2011. E’ uno dei campi profughi maggiori del paese, con più di 450 prigionieri: 400 eritrei, 30 provenienti da vari paesi dell’Africa Occidentale, 10 etiopi, 2 somali e una quindicina di sudanesi. Dipende formalmente dal ministero degli interni e, nei documenti ufficiali, è definito “sicuro”. Altroché sicuro, però. Qualche notte fa è diventato un girone dantesco. Con i detenuti terrorizzati, in balia dei miliziani di guardia che sparavano all’impazzata nel mucchio. Per ore.
La vicenda è stata ricostruita dall’agenzia Habeshia sulla base dei racconti di alcuni rifugiati che sono riusciti a mettersi in comunicazione con un cellulare, eludendo la sorveglianza. “E’ iniziato tutto la sera del 10 maggio – afferma don Mussie Zerai, riferendo le telefonate ricevute – Sembrava una serata come le altre. I profughi si stavano preparando a trascorrere la notte alla meglio, nel capannone dove erano ammassati, quando alcuni militari hanno incendiato numerosi pneumatici cosparsi di benzina, lanciandoli poi in tutto lo stanzone centrale, in mezzo alla massa di gente. Le fiamme si sono propagate rapidamente. Un’azione assurda, condotta a freddo, senza alcun motivo. Forse per disprezzo o addirittura per divertimento. La prima reazione dei detenuti, nel caos che si è scatenato, è stata quella di cercare di salvarsi dal rogo e dal fumo acre che soffocava, correndo verso le parti più defilate del locale. Ma era soltanto l’inizio. Molti hanno tentato di raggiungere il portone d’uscita e le finestre, ma i miliziani li aspettavano al varco, sparando contro tutti quelli che si facevano avanti. Come in una gara di tiro al bersaglio. Solo che i bersagli erano uomini e donne inermi. Secondo le testimonianze, almeno cinque sono stati feriti gravemente. Altri di striscio. Una scena infernale, con il buio squarciato dal riverbero delle fiamme e dalle vampate dei colpi di fucile. Non basta. Quando hanno smesso di sparare e l’aria è diventata più respirabile, squadracce di miliziani hanno fatto irruzione nel capannone, pestando sistematicamente tutti i profughi che trovavano”.
E’ stata una specie di mattanza senza fine: la voce di don Zerai è cupa mentre ne ricostruisce le ultime fasi. “Il mattino dopo – conclude – i cinque feriti più gravi sono stati portati via. Si spera in qualche ospedale o almeno in un’infermeria. Gli altri, le vittime del pestaggio e i feriti leggeri, sono rimasti lì: visi e occhi pesti, denti rotti, lividi, teste spaccate, ragazzi in stato di semi incoscienza. Molti, come mi hanno riferito, non riuscivano quasi a muoversi. Ci hanno messo ore per riprendersi un po’. Ecco, la Libia oggi è tutto questo: un paese senza governo e senza regole, dove qualsiasi gruppo di militari armati può decidere la sorte di centinaia di esseri umani, colpevoli solo di essere dei profughi”.

E’ proprio qui il punto. Con questa Libia l’Italia ha ribadito, sotto il governo Letta, nel luglio 2013, il trattato di collaborazione che delega a Tripoli il controllo dell’emigrazione nel Mediterraneo, dando seguito agli accordi firmati nel 2009 da Berlusconi e Gheddafi e nel 2012 da Monti e dal governo rivoluzionario. Non risulta che ora il governo Renzi abbia anche solo sfiorato l’idea di rimettere tutto in discussione e di arrivare a una revoca. Anzi, trovano attuazione proprio in questi giorni le ulteriori restrizioni sancite nel luglio 2013, che prevedono di sbarrare ai migranti il confine meridionale del paese, in pieno Sahara. “Ci è giunta notizia – denuncia don Zerai – che decine di profughi vengono respinti nel deserto a sud, verso il Niger, il Ciad e il Sudan. Abbandonati in mezzo al nulla, con la prospettiva di morire di stenti”. Una morte terribile: sete e fame nel mare di sabbie roventi. E’ già accaduto in passato: lo testimoniano i corpi disidratati trovati a più riprese lungo le piste maggiormente battute. Ora le vittime rischiano di moltiplicarsi, ma è una tragedia che si consuma senza clamori, lontano dall’attenzione dei media e, di fatto, nell’indifferenza dell’Italia e dell’Europa.
“Almeno le stragi in mare – riprende un portavoce dell’agenzia Habeshia – sono sotto gli occhi di tutti. Le torture, i soprusi, le uccisioni nei centri di detenzione libici o le morti nel Sahara avvengono invece quasi in segreto. Nessuno mostra di saperne qualcosa. Non se ne parla, non ci sono immagini o riprese televisive e, dunque, è come se non accadesse. E’ l’effetto perverso del continuo spostare il più a sud possibile, lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica, il ‘confine’ meridionale dell’Europa. Ma l’Europa e le cancellerie occidentali non possono continuare a defilarsi: devono intervenire e pretendere da Tripoli il rispetto dei diritti umani e civili dei migranti e dei rifugiati”.

Oltre tutto, mentre l’Italia e l’Unione Europea tacciono, gli stati africani più duri nei confronti dei profughi hanno modo di allearsi e collaborare. Come Sudan ed Eritrea. Nei giorni scorsi il governo di Khartoum ha ordinato una serie di retate, con arresti e rimpatri forzosi. “Almeno 30 eritrei sono stati riconsegnati all’Asmara – protesta don Zerai – Si direbbe un ‘omaggio’ fatto dal dittatore Beshir al regime di Isaias Afewerki, giunto nel paese per stipulare una serie di accordi bilaterali. Già, per compiacere Afewerki, Khartoum sta mettendo a repentaglio la sicurezza e la protezione dei rifugiati, costringendo migliaia di loro ad abbandonare il territorio sudanese per sfuggire alle ricerche della polizia. Per evitare la deportazione in Eritrea, dove li attendono processi farsa, condanne e carcere o anche peggio, quasi tutti cercano di raggiungere la Libia. Per i trafficanti di uomini è un’autentica manna. I fuggiaschi sanno bene a quali rischi si espongono affidandosi a loro, inclusa la prospettiva di essere rapiti. Però non hanno alternative: sono stretti tra il rimpatrio forzato e, dunque, la galera in Eritrea, il ricatto dei mercanti di morte e, non appena varcano il confine libico, la cattura da parte di bande di miliziani, che ne dispongono a piacimento nei centri di detenzione o li respingono di nuovo verso il Sahara”.

L’Europa tace anche su questo. Tace soprattutto l’Italia, con i suoi tre successivi trattati bilaterali di collaborazione con Tripoli. Motivi per intervenire ce ne sono in abbondanza. Nei confronti di Tripoli ma anche di Khartoum che, in totale violazione della convenzione di Ginevra, sta espellendo i rifugiati e richiedenti asilo eritrei, pur sapendo bene che rimandarli ad Asmara equivale a consegnarli alla persecuzione dalla quale hanno cercato scampo con la fuga. Ma tant’è. All’Europa evidentemente interessa solo bloccare questo flusso di disperati, senza curarsi della loro sicurezza e protezione. Della loro stessa vita.   

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