mercoledì 27 novembre 2013

63 migranti abbandonati alla morte nel Mediterraneo : i sopravvissuti fanno causa all’esercito belga



FIDH - Federazione Internazionale per i Diritti Umani
LDH – Lega per i Diritti Umani in Belgio
GISTI – Gruppo d’Informazione e di Sostegno agli/alle Immigrati/e

AEDH – Associazione Europea per la Difesa dei Diritti dell’Uomo
Migreurop

Comunicato stampa congiunto


Bruxelles, 26 novembre 2013 – Tre dei sopravvissuti alla tragedia che nel marzo del 2011 causò la morte di 63 migranti nel Mediterraneo, hanno depositato oggi un ricorso davanti al Tribunale di primo grado di Bruxelles contro l’esercito belga per omissione di soccorso a persone in pericolo.
Il ricorso sostiene che nell’aprile del 2011, nel mezzo del conflitto in Libia, le forze miliatri belghe sarebbero state destinatarie delle richieste di soccorso provenienti da un’imbarcazione carica di migranti, e le avrebbero ignorate contravvenendo in tal modo all’obbligo di prestare soccorso a persone in pericolo. Conseguentemente, 72 persone vennero lasciate alla deriva per 15 giorni, nonostante le loro richieste di aiuto fossero state ricevute, e malgrado il contatto avuto con un aereo, degli elicotteri e delle navi militari presenti nella zona.
"Siamo stati sorvolati dallo stesso elicottero quattro o cinque volte. Ci si è avvicinato. Era molto vicino. Potevamo vedere le persone a bordo. Quando si è allontanato abbiamo atteso che ritornasse a soccorrerci ma nessuno è venuto” ha dichiarato uno dei sopravvissuti alla tragedia.
Un’inchiesta condotta dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, pubblicata nell’aprile del 2012, ha concluso che svariate occasioni di salvare le persone a bordo dell’imbarcazione non furono colte e che “I paesi dei quali le navi presenti in prossimità dell’imbarcazione battevano bandiera sono venuti meno all’obbligo, che gli incombeva, di venire in soccorso a queste persone”. In una recente pronuncia riguardante la sorte riservata dall’Italia ai migranti che tentano di raggiungere l’Europa via mare, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha qualificato come intollerabili il disprezzo e l’indifferenza con cui vengono trattati i migranti, e ha affermato che il mar Mediterraneo non è una zona al di fuori della legge.

“L’indifferenza dei militari presenti nella zona ha condotto alla morte di 63 persone. E’ inaccettabile. Le vittime cosi’ come sopravvissuti meritano che sia resa loro giustizia” hanno dichiarato gli avvocati della coalizione.

Questo caso mette ugualmente in causa le forze militari italiane, francesi, spagnole, inglesi, canadesi e statunitensi, anch’esse presenti nei dintorni dell’imbarcazione alla deriva. I sopravvissuti hanno ad oggi depositato ricorsi in Italia, in Francia e in Spagna. In assenza di risposte adeguate del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Canda, paesi nei quali non è consentito alle vittime di intentare direttamente un’azione legale, delle richieste d’informazione sono state presentate, al fine di ottenere delle precisazioni sulla posizione e le azioni delle forze armate di tali paesi nel Mediterraneo all’epoca dei fatti contestati.

Riassunto dei fatti:

Nel marzo del 2011, 72 migranti lasciano la Libia in guerra a bordo di un gommone diretto verso l’Italia. Assai rapidamente, perdono il controllo dell’imbarcazione e lanciano dei segnali di soccorso. Il segnale è ricevuto dalla guardia costiera italiana, che a sua volta invia una richiesta di soccorso alla NATO e alle navi militari presenti nella zona indicando la localizzazione dell’imbarcazione. Tali richieste verranno rinnovate ogni 4 ore per i 10 giorni successivi. Nessuno viene in loro soccorso. Il gommone incrocia un aereo, degli elicotteri militari, due navi da pesca e una grossa nave militare, che ignorano i segnali di soccorso. Dopo 15 giorni alla deriva, l’imbarcazione è respinta verso le coste libiche. A bordo, solo 11 sopravvissuti, dei quali 2 muoiono poco dopo lo sbarco in Libia.

63 persone, tra cui 20 donne e 3 bambini, hanno trovato la morte per omissione di soccorso. (cfr comunicato stampa, « 63 morti nel Mediterraneo: l’esercito francese chiamato a rispondere per omissione di soccorso a persone in pericolo » e il rapporto di « Forensic Oceanography »).

Nel corso del 2011, anno segnato dalle crisi nel Nord Africa, più di 2000 persone sarebbero perite o andate disperse nel Mediterraneo, mentre le acque al largo della Libia erano massicciamente occupate da forze militari in possesso di sofisticati equipaggiamenti. In occasione del deposito di questo ricorso, la nostra coalizione tiene a ricordare il carattere incondizionato dell’obbligo di assistenza in mare che incombe ad ogni entità presente.

La coalizione di ONG che offre sostegno ai sopravvissuti riunisce le seguenti organizzazioni : Aire Centre, Agenzia Habeshia, Associazione Europea per la Difesa dei Diritti dell’Uomo (AEDH), Associazione Ricreativa e Culturale Italiana (ARCI), Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Boats4People, Centro Canadese per la Giustizia Internazionale, Coordinazione e iniziative per i rifugiati e gli immigrati (Ciré), Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH), Gruppo d’informazione e sostegno agli/alle immigrati/e (GISTI), Lega belga dei Diritti Umani (LDH), Lega francese dei Diritti Umani (LDH), Migreurop, Rete degli Avvocati Progressisti, Rete Euro-Mediterranea dei Diritti Umani (EMHRN), Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani (UFTDU).

Il rapporto di Forensic Oceanography, contenente le nuove immagini satellitari, può essere consultato al seguent link :

Contatti : Elena Crespi (italiano, francese, inglese) - Tel: +32 484 875 964 – Email : ecrespi@fidh.org

martedì 19 novembre 2013

Il traffico internazionale di esseri umani: Sinai e oltre

“Il traffico internazionale di esseri umani: Sinai e oltre”

Rapporto di Miriam van Reisen, Meron Estefanos e Conny Rijken

Camera dei Deputati, Sala del Refettorio (Palazzo San Macuto, via del Seminario 76)

11 dicembre 2013 ore 15,30

Relatori:
-          Miriam van Reisen, docente di scienze sociali all’università di Tilburg, direttrice dell’Europe External Policy Advisor (Eepa) di Bruxelles
-          Meron Estefanos, giornalista e co-fondatrice della Commissione internazionale dei rifugiati eritrei di Stoccolma
-          Alganesh Fissehaye, presidente Ong Ghandi
-          Don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, responsabile per la Pastorale per gli Eritrei ed Etiopi in Svizzera
 
Partecipa Laura Boldrini, presidente della Camera dei Deputati

Introduce e coordina i lavori Emilio Ciarlo,
consigliere del viceministro degli Esteri con delega all’Africa sub sahariana e responsabile del Dipartimento internazionale del gruppo Pd alla Camera dei Deputati


Presentazione

Il rapporto è l’aggiornamento o, per meglio dire, il completamento di un precedente dossier elaborato dallo stesso team di studiosi e osservatori, che ha rivelato la terribile situazione in cui sono precipitati migliaia di giovani, uomini e donne i quali, perseguitati e costretti a fuggire dal proprio Paese, sono finiti preda di una rete criminale internazionale. Vengono quasi tutti dal Corno d’Africa: oltre il 90 per cento dall’Eritrea, gli altri dall’Etiopia, dalla Somalia o dal Sudan. Catturati durante il viaggio verso l’Europa o Israele oppure rapiti intorno o addirittura all’interno dei campi profughi in Sudan o in Etiopia, sono diventati “merce umana”: prigionieri da sfruttare, con riscatti di decine di migliaia di dollari a testa (le ultime richieste sono arrivate a 50 mila) come prezzo per riavere la libertà o la minaccia, in alternativa, di una vita da schiavi in vendita al miglior offerente, torture, morte.
Oltre ad ampliare il lavoro precedente descrivendo gli itinerari della disperazione che portano al Sinai e qual è la situazione nella regione a quasi due anni di distanza, la nuova inchiesta completa il quadro analizzando le risposte che danno a questo fenomeno le istituzioni e le “autorità” dei paesi africani che i profughi attraversano prima di arrivare nel Sinai o anche dopo, una volta che abbiano magari riconquistato in qualche modo la libertà, con particolare riferimento alle politiche adottate nei confronti dei rifugiati. Persino l’eventuale rilascio, infatti, non è risolutivo e il futuro di questi uomini e donne resta estremamente incerto: rischiano di essere di nuovo sequestrati, di essere arrestati nei paesi di transito, di subire altri ricatti e rimpatri forzati verso i paesi da cui sono fuggiti per sottrarsi a morte, carcere e persecuzione.
Condotta “sul campo”, con una larga messe di dati e racconti di numerosi testimoni-protagonisti dei fatti narrati, la ricerca mira in sostanza a dar voce alle vittime di questa tragedia, con un obiettivo: chiedere una diversa politica di accoglienza da parte dell’Unione Europea nei confronti dei rifugiati. Sono strettamente connessi, infatti, il problema del traffico internazionale di esseri umani e l’atteggiamento, le scelte, che l’Europa e i singoli stati nazionali adottano per i richiedenti asilo e i migranti. Affonda qui le radici anche la stessa recente strage di Lampedusa, che ha suscitato così vasta commozione e sensazione in tutto il mondo: le circa 400 vittime stavano fuggendo dal mondo descritto nel dossier, nella speranza di trovare rifugio in Europa.


Il rapporto, oltre che a Bruxelles, verrà presentato a Tel Aviv, al Cairo, ad Addis Abeba, a Londra, New York, Washington. Per l’Italia è previsto un secondo incontro a Lampedusa, simbolo della speranza per migliaia di profughi. 

domenica 17 novembre 2013

Naufragio di Lampedusa: da testimoni a “confinati”

di Emilio Drudi

Sono trattenuti a Lampedusa contro la loro volontà. Quasi come reclusi. O, quanto meno, confinati. Sono i profughi eritrei, una quindicina, che hanno trovato il coraggio di raccontare quello che è accaduto all’alba del tre ottobre scorso: l’alba in cui sono morti circa 370 disperati nel barcone affondato a meno di un miglio dalla Spiaggia dei Conigli, dopo aver arrancato per ore attraverso il Mediterraneo, dalla Libia verso il sogno della salvezza in Europa. I compagni scampati alla strage sono stati trasferiti a Roma, ospiti del Campidoglio. Loro non possono partire “per esigenze di giustizia”: la Procura di Agrigento li vuole a disposizione per tutti gli interrogatori e le testimonianze eventualmente necessarie nell’ambito dell’inchiesta aperta sulla tragedia.
In seguito alle indagini iniziate mentre ancora si contavano le vittime, ci sono stati due arresti: un tunisino accusato di essere lo scafista, l’uomo al timone del barcone; e un somalo poco più che ventenne, sospettato di far parte dell’organizzazione di trafficanti che sfruttano a caro prezzo la disperazione di migliaia di uomini e donne, in fuga da guerre e dittature, persecuzioni e galera, torture e soprusi in Eritrea, nel Sudan, in Etiopia, in Somalia. Al giovane somalo, in particolare, vengono attribuiti anche stupri e violenze di cui si sarebbe reso responsabile proprio alla vigilia della partenza del barcone della morte. Una volta sbarcato insieme ai naufraghi, avrebbe cercato di mimetizzarsi tra i richiedenti asilo del campo di Lampedusa, ma è stato riconosciuto e denunciato da alcuni dei superstiti.
Dei quindici testimoni costretti a restare sull’isola, undici i magistrati intendono sentirli in relazione allo scafista; gli altri quattro sul caso più difficile e delicato del presunto trafficante. Quasi tutti, inoltre, hanno raccontato a don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, l’episodio delle due navi rimaste sconosciute, della stazza di una motovedetta o di un moderno peschereccio d’altura, le quali – secondo quanto è stato riferito – hanno avvistato il barcone in difficoltà a 800 metri dalla riva ma non sono intervenute in soccorso né hanno dato l’allarme. Una, anzi, avrebbe addirittura compiuto un largo giro intorno al natante dei profughi, come per identificarlo, salvo poi riprendere la navigazione in coppia con l’altra, sempre senza informare nessuno dei presidi di sicurezza presenti a Lampedusa: Guardia Costiera, Finanza, Carabinieri, Polizia. E proprio questa manovra potrebbe essere stata la causa indiretta del naufragio, perché l’incendio che ha scatenato il panico a bordo, provocando il ribaltamento e il conseguente affondamento, pare sia stato originato dal telone intriso di gasolio e dato alle fiamme per attirare l’attenzione di quella nave che, dopo aver girato in circolo senza avvicinarsi, stava puntando verso il largo.
Su tutta questa vicenda l’agenzia Habeshia sta compilando un dossier. Alcuni media ne hanno già parlato, ma non risulta che la Procura se ne stia interessando. Di sicuro nessun magistrato né alcun funzionario di polizia ha ascoltato i ragazzi che la hanno raccontata a don Zerai. Le inchieste riguardano solo il tunisino ritenuto lo scafista e il presunto trafficante somalo: tutto tace, invece, a quanto pare, sulla dinamica precisa del naufragio e su quelle due navi fantasma. A maggior ragione appare strano, allora, che quei 15 testimoni, le cui dichiarazioni sono già state verbalizzate, siano stati separati dai compagni sopravvissuti e debbano restare a Lampedusa non si sa fino a quando, costretti nel campo di raccolta dell’isola, che assomiglia più a un carcere che a un centro di accoglienza per rifugiati. Sono già 45 giorni che va avanti questa situazione assurda. Loro la vivono come una reclusione e una violenza. Peggio: quasi una “punizione” per essersi fatti avanti.
Don Zerai si è rivolto sia alla Prefettura che alla Procura di Agrigento. Alla sua voce si è aggiunta quella di Lia Quartapelle, giovane parlamentare del Pd, componente della commissione esteri della Camera, mentre si starebbero muovendo anche alcuni esponenti di Amnesty. “Secondo la legge – dichiara don Zerai, ripetendo quanto ha già scritto al prefetto, la dottoressa Ferrandino, e al sostituto procuratore Maggioni – questi profughi non dovrebbero restare più di 72 ore nel centro di accoglienza. Sono lì, invece, praticamente prigionieri, da più di 40 giorni. Al punto che tanti, quasi tutti, mi hanno detto di essersi pentiti della loro scelta di testimoniare. Vivono la condizione attuale come una punizione. Sono molto preoccupato del loro stato psicofisico: qualcuno ha detto persino di essere deciso a suicidarsi nel caso sia costretto a restare ancora a lungo a Lampedusa. E’ una tortura psicologica che non sono più in grado di sopportare: bisogna trasferirli tutti e subito. A Roma, dove sono i loro compagni. Tra l’altro, non si capisce come mai, se sono già stati ascoltati dalla Procura, debbano restare sull’isola. Nessuno ha fornito spiegazioni plausibili. Se i magistrati avranno bisogno di sentirli di nuovo, potranno andare a interrogarli a Roma”.
Già, una volta verbalizzate le loro prime dichiarazioni, la Procura avrebbe potuto benissimo dare il nulla osta per affidarli al Campidoglio come gli altri superstiti, salvo andare di nuovo a interrogarli a Roma o a convocarli ad Agrigento in caso di necessità. In aereo, Roma non è molto più lontana di Lampedusa da Agrigento. E non c’è sicuramente alcun pericolo che quei giovani, dopo essersi fatti avanti, decidano di “sparire”. Semmai il rischio di ripensamenti potrebbe farsi strada proprio a causa di come sono stati trattati finora.
Sorprende anche il fatto che non risultino indagini più approfondite sul naufragio, con un’attenzione particolare per quelle due navi fantasma. Si è dato grande risalto, invece, agli arresti dello “scafista” e del “trafficante”: secondo quanto hanno dichiarato vari politici e diverse istituzioni a tutti i livelli, trovando una vasta eco nei media, sarebbero la conferma dell’efficacia e della determinazione con cui l’Italia intende condurre la lotta contro il “traffico di disperati” in fuga dall’Africa. Ma, nei fatti, tanta enfasi desta il sospetto che serva solo a coprire carenze e scelte quanto meno discutibili. Quanto alla lotta alla “tratta degli schiavi”, ad esempio, nonostante le ripetute sollecitazioni, mancano quasi del tutto indagini coordinate a livello internazionale, anche tramite l’Interpol e con il coinvolgimento attivo di tutti i paesi di transito e di arrivo dei profughi, per individuare la rete criminale che, secondo i racconti di numerosi fuggiaschi, si gioverebbe di complicità diffuse anche in vasti settori corrotti dell’apparato pubblico di varie realtà: Libia, Sudan, Sinai. Oppure, ancora, si fingono di ignorare gli effetti dell’intesa bilaterale tra Italia e Libia che, nel tentativo di blindare e di spostare il più a sud possibile il confine italiano ed europeo, consegna ai lager di Tripoli migliaia di perseguitati che hanno diritto all’asilo e alla protezione internazionale, costringendoli così a rivolgersi ai trafficanti di uomini per tentare di sfuggire al vortice infernale in cui sono precipitati. A quegli stessi trafficanti di uomini che l’Italia e l’Europa giurano di voler combattere.

Se davvero si vuole mettere fine a questo mercato di morte, forse bisogna partire dal superamento immediato di contraddizioni come queste, impostando al più presto una nuova politica dell’accoglienza in tutta l’Unione Europea. Non basta gettare in carcere una pedina della “tratta” o uno scafista. Tanto più che, come si è scoperto in vari casi, capita ormai non di rado che giovani disperati e fuggiaschi come i profughi che traghettano dall’Africa, si piegano a fare i Caronte attraverso il Mediterraneo perché non hanno i due, tre, o anche quattromila dollari da versare ai trafficanti per pagarsi il ticket della traversata. 

venerdì 1 novembre 2013

FOR IMMEDIATE RELEASE -- CONCERNING THE LAMPEDUSA DISASTER OF OCTOBER 3, 2013


We have now returned from a three-day visit to Sicily and Lampedusa. On October 21, we visited the Questura in Agrigento, where Eritrean families had come to identify the bodies of their loved ones. We observed that the process was disorganized. Many of the families were confused, distressed, and unable to obtain the information they were seeking. A representative of the Eritrean regime had taken over the process. The process should have been under the control of the Italian authorities, but it was not. This caused pain and delay to many of the families, who were not comfortable giving information to representatives of the regime. The representatives of the regime gave incorrect information out to the families. While presenting themselves as the rightful representatives of the Italian government, they circulated papers requesting payment of 150 Euros for DNA testing. The Italian Red Cross had already offered to provide this service for free. These families are already in a great deal of pain. This deceptive, unprofessional process is an insult to the victims. The authorities of Agrigento must not allow regime supporters to misrepresent themselves as representatives of the Italian government.

We attended a so-called funeral ceremony, a gimmick arranged for the convenience of politicians. The survivors of the October 3 disaster, who are in desperate need of closure, were not permitted to attend. Many lost their brothers, sisters, husbands, wives, and dear friends in the Mediterranean on that day. None of the survivors were permitted to attend the ceremony. A further insult was delivered by the presence of Zemede Tekle and his supporters. Mr. Tekle is the Eritrean regime's ambassador to Italy. He was invited to the ceremony by the vice prime minister of Italy. Mr. Tekle represents the same regime that the victims of October 3 fled from, the same regime that drove them across the Mediterranean where 366 of them perished. Mr. Tekle's presence brought further pain to the families, who are still mourning their loved ones. Some of the families were so insulted that they called Angelino Alfano, the vice prime minister, "assassino." Instead of seeking to understand their grief, he accused them of being accomplices of the human traffickers.  

On October 22, we arrived in Lampedusa. The authorities did not allow us to enter the refugee camp, even though the survivors themselves asked to see us. The survivors wanted us to be present as witnesses to their living conditions. We have been in contact with many of these individuals as they traveled through Ethiopia, the Sudan, and Libya. Some of the survivors who we met are young men and women, not yet of legal age, who made the journey alone. Among them were survivors of torture, kidnapping, rape, and human trafficking. They need assistance from psychological and medical professionals. Some of the survivors have lost their spouses and children. Their loved ones' bodies were moved from Lampedusa to Agrigento without their knowledge or authorization. When the survivors asked to be at the so-called funeral ceremony, their request was denied. They then went on a hunger strike for twenty-eight hours. 

The survivors had many questions for us. They do not know when they will leave Lampedusa, or where they will be taken. The uncertainty adds to their stress. Regarding the October 3 disaster, we collected testimonies that two boats, which the survivors believe to be from the Italian Navy, circled around their boat and did not help. It was out of desperation, when these two boats failed to provide assistance, that the captain started a fire. Had the two boats intervened, the survivors told us, not a single life would have been lost. They blame the Italian Navy for the loss of 366 lives. They are prepared to appear before any court and testify to what they have witnessed.

We demand an investigation by an independent body.

We demand that the government of Italy formally apologize for insulting the survivors and not allowing them to attend the so-called funeral ceremony.

We demand that the government of Italy grant citizenship to the survivors of the October 3 disaster, as it did to those who died.

We demand that all countries of the European Union welcome the survivors of this trauma as refugees, grant them asylum, and assist with their resettlement.

We demand immediate treatment for the survivors by psychological and medical professionals.

We demand the transfer of all migrants now held at Lampedusa to refugee camps where they can claim refugee status.

We demand financial assistance for the survivors, to compensate them for their ordeal, and provide for their basic daily needs.

Father Mussie Zerai

Meron Estefanos

October 24, Palermo

Scovare le due navi che hanno ignorato l’Sos dei profughi

Don Zerai chiede un’inchiesta: “Scovare le due navi che hanno ignorato l’Sos dei profughi”
di Emilio Drudi

“Ci sono oltre 370 vittime che aspettano giustizia. Occorre che la magistratura apra un’inchiesta, perché molti elementi fanno pensare che quella di Lampedusa non sia stata soltanto una tragica fatalità. Alla base potrebbe esserci un assurdo, terribile caso di omissione di soccorso”: don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, è sempre più convinto che siano ancora molti i punti da chiarire sulla strage del tre ottobre. Negli ultimi giorni ha raccolto indizi, dichiarazioni, testimonianze e non è escluso che il dossier che sta mettendo insieme possa diventare la base per un esposto formale alla Procura di Agrigento.
I sospetti si concentrano sulle due imbarcazioni di cui hanno parlato quasi tutti i superstiti: due natanti rimasti sconosciuti che – hanno detto in molti – avrebbero avvistato il barcone carico di uomini, donne e bambini, mentre arrancava verso la spiaggia dei Conigli, a mezzo miglio dalla costa, ma non si sarebbero fermati per prestare aiuto. Secondo diverse testimonianze, anzi, l’incendio che ha scatenato il panico a bordo, provocando il capovolgimento e il conseguente affondamento della “nave dei profughi”, sarebbe stato causato da un telo cosparso di gasolio e dato alle fiamme proprio per attirare l’attenzione di quei due natanti, che si stavano allontanando. Don Zerai, che è appena rientrato da Lampedusa, ha iniziato la sua indagine proprio partendo dai racconti di quella notte. Sull’isola ha incontrato un centinaio di superstiti e a tutti ha chiesto di ricostruire le fasi della tragedia, cercando di ricordare quanti più particolari possibile. Alla fine, è arrivato alla conclusione che potrebbero esserci pesanti responsabilità.
“I sopravvissuti con i quali ho parlato – dice don Zerai, assicurando che sono tutti pronti a confermare le loro dichiarazioni in qualsiasi sede, sia politica che legale – mi hanno raccontato di essere stati avvicinati da due natanti abbastanza grandi, simili a quelli in dotazione alla guardia costiera, quando erano già nelle acque di Lampedusa, a circa 800 metri dalla riva, tra le 3 e le 3,30 del mattino. Uno dei due avrebbe anche girato attorno al barcone con a bordo più di 500 persone che gridavano aiuto e facevano segnali con le torce elettriche. Pare sia stato anche acceso un lampeggiatore o comunque una luce di colore rosso, per segnalare che erano in difficoltà e avevano bisogno di soccorso, ma i due natanti, tuttora senza nome, non solo non hanno prestato aiuto, ma pare che non abbiano neppure comunicato alle autorità competenti la presenza di quel barcone di disperati”.
Non basta. A questo punto acquista maggior peso anche un altro interrogativo posto da più parti sin dall’inizio: come sia stato possibile per quella “carretta” zeppa di profughi arrivare sino a mezzo miglio da Lampedusa senza essere avvistata. “E’ un mistero inspiegabile – insiste don Zerai – Se quel barcone ha potuto navigare dalla Libia alle acque lampedusane senza essere intercettato, c’è da pensare che tutti i sistemi italiani di difesa e controllo dei confini erano fuori uso. Ovvero: se si fosse trattato non di rifugiati inermi ma di terroristi o guerriglieri armati, avrebbero potuto fare quello che volevano. Non ritengo possibile, insomma, che le forze e le autorità deputate alla difesa della frontiera non si siano accorte di nulla. E’ quanto meno strano. Per non dire del comportamento di quelle due imbarcazioni che, a detta dei superstiti, si sarebbero avvicinate al barcone, lo avrebbero controllato a distanza e poi se ne sarebbero andate, senza far nulla: nessun aiuto, malgrado le urla e le segnalazioni. Se si fossero fermate, questa tragedia sarebbe stata evitata e ora non staremmo qui a piangere centinaia di vite umane”.
Sono parole che pesano come macigni. Le autorità italiane, a tutti i livelli, hanno sempre sostenuto di aver saputo della “nave dei profughi” solo a naufragio avvenuto, dopo le segnalazioni dei primi soccorritori, diportisti e pescatori che navigavano per caso in quelle acque, di fronte alla spiaggia dei Conigli. Non c’è motivo di dubitarne. Del resto, pochi giorni dopo la tragedia, un’altra “carretta” di profughi è arrivata indisturbata a Lampedusa, senza essere segnalata, ed ha attraccato direttamente in porto, addirittura all’altezza del molo riservato ai mezzi navali della Guardia di Finanza. Tuttavia restano i racconti di quella strana manovra: quel girare intorno al barcone in difficoltà, salvo poi allontanarsi. Don Zerai assicura che le numerose testimonianze dei superstiti, da lui stesso raccolte, appaiono univoche e circostanziate in proposito. Non si capisce allora come mai gli equipaggi di quei due natanti, chiunque fossero, non abbiano subito avvertito il comando della Guardia Costiera, prima che il barcone andasse a fondo. Per questo adesso l’agenzia Habeshia e diversi familiari delle vittime chiedono di aprire un’inchiesta: “Le dichiarazioni fatte dai superstiti sulle circostanze della tragedia – insistono – non possono essere ignorate. Se non altro per fare chiarezza e fugare tutti i dubbi”.
“Non comprendiamo – afferma don Zerai – come mai la magistratura non stia indagando per appurare se effettivamente ci sia stata una macroscopica omissione di soccorso, alla luce delle tante, concordi testimonianze di quanti hanno avuto la fortuna di salvarsi. Ma l’inchiesta della Procura non basta. Dal ministero della difesa ora è lecito attendersi chiarimenti su come sia stato possibile tutto ciò: occorre ricostruire nei particolari l’accaduto e soprattutto bisogna dare un nome a quelle due navi misteriose di cui parlano i sopravvissuti. E il ministero della giustizia dovrebbe chiarire perché, a quanto se ne sa, non sia stata aperta un’istruttoria per omissione di soccorso. Non basta incriminare lo scafista tunisino. Forse le responsabilità sono molto più vaste. Forse c’è chi ha visto ma non si è fermato, non ha lanciato l’allarme né ha informato chi di dovere. C’è un’esigenza forte di trasparenza e di giustizia: per le vittime e le loro famiglie e per gli stessi sopravvissuti, che vivono ancora e continueranno a vivere ogni giorno l’incubo di questa tragedia per il resto della loro esistenza”.
Appare una richiesta legittima. Oltre tutto non si è ancora spenta l’eco di un’altra strage per la quale l’Italia è stata duramente chiamata in causa: quella del gommone in avaria, carico di profughi, abbandonato alla deriva nel canale di Sicilia per due settimane, tra l’ultimo scorcio di marzo e l’inizio di aprile del 2011. Alla fine, quando le correnti li hanno sospinti di nuovo verso la costa libica da cui erano partiti, dei 72 disperati che erano a bordo, inclusi due bambini, ne rimanevano in vita solo 11: tutti gli altri erano morti di sete e di stenti. E il bilancio è poi salito a 63 vittime perché altri due sono spirati poco dopo lo sbarco. Fu uno scandalo a livello internazionale, perché nessuno si è mosso per salvare quei naufraghi per ben 15 giorni di seguito, nonostante il gommone abbia incrociato diverse navi militari della flotta Nato schierata contro Gheddafi e addirittura un elicottero si sia avvicinato, uno o due giorni dopo il segnale di Sos, per gettare un po’ di cibo e qualche bottiglia d’acqua. Sono finiti sotto accusa per questa tragedia numerosi paesi: Malta, la Spagna, la Francia poiché le navi incrociate dal gommone battevano quelle bandiere. Ma la maggiore responsabilità, con tanto di condanna ufficiale da parte del Consiglio d’Europa, è stata attribuita all’Italia perché, avendo ricevuto per prima la richiesta di aiuto, avrebbe dovuto farsi carico di organizzare i soccorsi.
Alla sentenza di Strasburgo è seguita un’istruttoria della Procura Militare, con un processo che non si è ancora concluso, ma che non riguarda le responsabilità morali e politiche della strage. Oltre tutto la vicenda sarebbe passata sotto silenzio se non fosse stata denunciata prima dal Guardian di Londra e poi da altri grandi media, costringendo le istituzioni italiane ed europee ad occuparsene. Sarebbe assurdo fare gli stessi errori di indifferenza, inerzia e sottovalutazione per il disastro del 3 ottobre a Lampedusa.



         

DNA test for identifications of remains

WHAT YOU NEED TO TAKE A SAMPLE OF DNA 
Two sticks of cotton swab 
A clean urine container
One pack of sterile gauze
Sellotape
Empty stickers

PROCEDURE
1. Rub your gum or the inside of your cheek with a stick of cotton swab
2. After that, place the cotton swab in a clean urine container
3. Put the sterile gauze on the top of the container.
4. Close the container (with gauze on top) with some sellotape
5. Write your name and date of birth and that of the missing relative on the sticker and put the sticker on one side of the container
6. On a separate sheet of paper write down your full name, address, phone number, e-mail, etc
7. Send your package to the following address:
OSPEDALE POLICLINICO, DIPARTIMENTO DI MEDICINA DELLE MIGRAZIONI, AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA POLICLINICO “PAOLO GIACCONE”. VIA DEL VESPRO N. 141, CAP 90127, PALERMO. TEL (0039) 091 6552981. ALL’ATTENZIONE DEL DOTT. MARIO AFFRONTI (TEL.(0039) 3297974965.)
IMPORTANT INFORMATION
Do not spit inside the container. Saliva is not good for DNA testing Do not close the container with a lid. If you do so , the sample can go mouldy. That’s why you need to use a sterile gauze to close the container. THE HOSPITAL WILL KEEP THE DNA SAMPLES IN A SAFE PLACE UNTIL A DECISION IS MADE ON WHEN AND WHERE THE TESTING WILL START.
WE’LL INFORM YOU ABOUT IT.
DNA TESTING ONLY WORKS FOR BROTHERS,MOTHERS,FATHERS AND THEIR CHILDREN.IF YOU ARE AN UNCLE, A NEPHEW, A COUSIN ETC DO NOT SEND ANY SAMPLES. FOR MORE INFO CALL DOTT.SSA CASSARA: +39.3455190255