domenica 23 giugno 2013

Israele: rischio di deportazione per migliaia di immigrati

di Emilio Drudi

“Sono disposto ad accettare un trasferimento da Israele soltanto se coordinato con l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati e la comunità internazionale. Ma ho sentito che ci vogliono gettare in un paese terzo dove le nostre vite non sarebbero al sicuro. Si parla di Uganda, Nigeria o Kenya. Sono tutti posti non sicuri per noi: da lì possono deportarci in Eritrea”: Gabriel, originario di Asmara, 31 anni, a Tel Aviv da sei, ha espresso al quotidiano Haaretz tutta la preoccupazione di migliaia di giovani profughi come lui di fronte ai nuovi provvedimenti del governo Netanyahu. Nei confronti di rifugiati e migranti si profila infatti una espulsione di massa. Anzi, la stampa progressista come Haaretz, parla di vera e propria deportazione.
E’ un’angoscia che investe oltre 60 mila uomini e donne, quasi tutti giovani, talvolta famiglie intere con i bambini. La metà sono sudanesi. Poi, quasi 20 mila eritrei. Tra gli altri gruppi prevalgono gli etiopi e i somali. Disperati fuggiti da guerre, persecuzioni politiche, discriminazioni, fame e carestia. Sono arrivati quasi tutti attraverso il deserto del Sinai, sfidando le fucilate della polizia di frontiera egiziana e i controlli dell’esercito israeliano. O i trafficanti di schiavi che danno la caccia a fuggiaschi come loro, li catturano e chiedono per liberarli un riscatto che arriva fino a 40 mila dollari a testa: chi non riesce a pagare rischia di essere venduto sul mercato degli organi per i trapianti clandestini oppure, le ragazze, nel giro della prostituzione. E’ un massacro che conta ormai centinaia, migliaia di vittime. Nell’indifferenza della comunità internazionale. Ma anche per i più fortunati, quelli che sono riusciti a raggiungerlo, Israele non si è rivelato la “terra promessa” che speravano.
Superato il confine, ai richiedenti asilo è concesso un visto provvisorio, in genere di tre mesi, e viene assicurato un alloggio. Non hanno diritto, però, ad altre forme di assistenza o possibilità di lavoro. Sono concentrati soprattutto nella periferia di Tel Aviv ma ce ne sono numerosi anche a Elat, Gerusalemme e altre due piccole città, Hadera e Gadera, scelte dal governo quando si è ritenuto che a Tel Aviv ce ne fossero troppi. La loro vita non è facile. Non lo è mai stata. Abitano in piccole case prese in affitto. Sei, otto, persino dieci per stanza. E si arrangiano come possono, sfruttati spesso come braccia in nero a buon mercato per l’edilizia, l’agricoltura, servizi di manovalanza. Senza tutele, senza la possibilità di protestare e guardati in genere con sospetto e ostilità. Non sono mancati, anzi, episodi di grave intolleranza. Giusto un anno fa, all’inizio di giugno 2012, a Gerusalemme sono state lanciate bottiglie molotov contro una casa che ospitava una decine di eritrei: quattro sono finiti in ospedale per le ustioni o intossicati dal fumo. Il movente di questa autentica spedizione punitiva è emerso senza possibilità di dubbi dalle scritte tracciate sul muro dell’edificio: “Andatevene via…”. Attacchi analoghi, come segnala un servizio giornalistico del Post, si erano registrati nelle settimane precedenti a Tel Aviv, sempre contro abitazioni, negozi e persino un asilo frequentato da bambini africani.
Chi non ha il visto valido rischia di finire nel centro di detenzione di Saharonim, nel Negev, dove vengono portati anche tutti i migranti irregolari sorpresi al confine dai militari. Una linea dura che nell’ultimo anno il governo ha deciso di inasprire ancora di più, sostenendo che “gli infiltrati illegali” minacciano “l’identità nazionale israeliana”. Il 3 giugno 2012 è entrata in vigore una legge che consente di chiudere in campi di internamento per un periodo fino a 3 anni, senza processo, gli immigrati non in regola. Anzi, può essere condannato a pesanti pene detentive – come riferisce Dana Weiler-Polak in un servizio su Haaretz – anche chi “aiuti i migranti o fornisca loro un rifugio”. E’ stata completata, inoltre, la costruzione di una barriera di filo spinato che segue il confine con l’Egitto nel deserto del Sinai per centinaia di chilometri. Il fine dichiarato è il controllo della frontiera contro eventuali incursioni di terroristi ma il primo vero risultato concreto è in realtà la realizzazione di un ostacolo insuperabile per i profughi in fuga dal Sudan e dal Corno d’Africa.
Per giustificare questo genere di provvedimenti si insiste sempre sul fatto che si tratta di “irregolari”. Infiltrati. Ma è fin troppo evidente che chiunque sia costretto a fuggire per le persecuzioni e le discriminazioni subite nel proprio paese, non può che essere un emigrato “irregolare”: arriva al confine come clandestino proprio perché è un perseguitato alla ricerca disperata di aiuto e assistenza. Come prevedono gli accordi internazionali. Solo che Israele, nonostante sia stato tra i primi a firmare la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei profughi, si mostra sempre meno disposto a concedere a questi disperati lo status di rifugiati. In particolare ai sudanesi del nuovo stato del Sud Sudan, istituito nel 2011 con capitale Giuba, con il pretesto che ormai, dopo la separazione da Khartoum, non avrebbero più motivo di fuggire. La stessa sorte tocca tuttavia ai sudanesi del nord e agli eritrei. Ne è nato un vasto programma di espulsione che, ormai fortemente ridotto il flusso di nuovi migranti dopo la costruzione della barriera sul confine egiziano, riguarda essenzialmente i 60 mila immigrati già residenti nelle città israeliane, magari da anni.
Non mancano le proteste, soprattutto da parte delle organizzazioni umanitarie, come Hotline for Migrants Workers o l’agenzia Habeshia, alle quali la stampa progressista ha dedicato ampio rilievo. Il governo, però, insiste sulla linea dura. Non a caso il campo di Saharonim, che poteva ospitare fino a 2.000 prigionieri, è stato quasi triplicato: la capienza è ora di oltre 5.400 posti ma se sarà necessario si prevede di ingrandirlo ulteriormente. Ed è eloquente quanto ha dichiarato mesi fa al quotidiano Maariv l’attuale ministro degli esteri Eli Yishai, allora titolare del dicastero degli interni: “Useremo tutti gli strumenti per espellere tutti gli stranieri, fino a quando non rimarrà alcun infiltrato”. L’unico serio ostacolo per questa politica era che è difficile espellere questi disperati verso i paesi d’origine, sconvolti da guerre e dittature e dove li aspettano il carcere o addirittura la morte. Dove ci sono ancora, cioè, le condizioni che li hanno costretti a scappare. Adesso si è trovato il modo di aggirare anche questo problema: è di questi giorni la notizia che si stanno stipulando accordi con un paese terzo nel quale trasferire i profughi.
Non è noto di quale paese si tratti. La rivista Rinascita online scrive che sarebbe una nazione africana la quale – secondo quanto riferito dalla radio dell’esercito israeliano – condividerebbe “interessi comuni” con Tel Aviv. La notizia, in ogni caso, è stata riportata con grande rilievo dalla stampa progressista israeliana, a cominciare dal quotidiano Haaretz. Quattro le ipotesi avanzate: Uganda, Etiopia, Kenya e Sud Sudan. Giornali e organizzazioni umanitarie hanno subito sollevato forti dubbi sulla legittimità del provvedimento. Tuttavia la Corte Suprema di Gerusalemme, informata dall’avvocato del governo Yochi Gnesin, non ha fatto obiezioni di alcun tipo. E il piano starebbe ormai per scattare. Un piano, anzi, “una società di deportazione”, ha commentato Haaretz in un servizio ripreso da Rinascita, aggiungendo che questo nuovo provvedimento, rivolto in particolare contro sudanesi ed eritrei, riflette “il disprezzo del governo Netanyahu” nei confronti dei neri africani, spesso richiedenti asilo. “Invece di far fronte alle loro difficoltà – scrive il giornale di Tel Aviv – si preferisce espellerli”. “La nuova misura – aggiunge Rinascita – ha destato la preoccupazione della comunità africana presente nel paese. Interpellati da Haaretz, gli immigrati hanno detto di temere di essere deportati contro la loro volontà e senza alcuna garanzia sul rispetto dei loro diritti. Per scongiurare tale ipotesi hanno quindi chiesto alle autorità israeliane di accogliere le loro istanze di asilo, riconoscendone lo status di rifugiati, prima di procedere a qualsiasi trasferimento”. Seguono le dichiarazioni di numerosi migranti: “Se non proteggono i miei diritti in Israele – protesta ad esempio Bob, 27 anni, arrivato dall’Eritrea nel 2009 – come faccio a sapere che li difenderanno in un altro paese? Dobbiamo sapere qual è il paese. E come trattano lì i rifugiati…”.
Secondo le organizzazioni umanitarie, non c’è dubbio che, nonostante l’accordo sancito dalla Corte Suprema, questo provvedimento viola la convenzione di Ginevra del 1951 e i diritti stessi dell’uomo. Un tentativo di giustificazione, da parte del governo israeliano, potrebbe essere che le Nazioni Unite, riconoscendo che quello dei profughi è un problema di portata sovranazionale, prevedono di ripartirne gli oneri attraverso la cooperazione internazionale. Ad esempio, un paese che confina con un altro in stato di guerra, non può essere lasciato da solo a far fronte al prevedibile, enorme flusso di sfollati. Gli oneri dell’assistenza vanno divisi. “La scelta di Israele non rientra in questo contesto – rileva Habeshia – Appare piuttosto lo scaricabarile di un paese ricco verso uno povero. Per di più, non si ha nessuna garanzia che il paese dove ricollocare i rifugiati ne proteggerà davvero i diritti. E’ un timore che riguarda, in varia misura, tutti e quattro gli stati indicati dalle indiscrezioni di questi giorni. Ecco perché quella in programma più che un trasferimento sembra una deportazione. Con un rischio enorme, in particolare, per gli eritrei che, se riconsegnati in qualche modo alla dittatura di Isaias Afewerki, sono destinati come minimo al carcere”.

C’è chi ricorda come proprio per questa terribile situazione ogni anno oltre il 70 per cento dei richiedenti asilo eritrei in tutto il mondo ottenga il riconoscimento di rifugiato che comporta, si legge nella convenzione dell’Onu, “la protezione contro il respingimento” e garantisce, oltre che al rifugiato stesso anche alla sua famiglia, “accesso ai diritti civili, politici, economici, sociali uguali a quelli di cui godono i cittadini dello Stato ricevente”, con la possibilità “di diventarne alla fine un cittadino naturalizzato”. Tutto questo – è la conclusione – non si verifica in Israele ed è lecito dubitare che possa accadere nel paese dove Tel Aviv intende trasferire i profughi africani. Haaretz cita non a caso le centinaia di emigranti espulsi nel recente passato dalle carceri israeliane nelle quali erano detenuti. “Dove sono oggi?”, si interroga il quotidiano progressista. Non c’è risposta: nessuno sembra sapere in pratica che fine abbiano fatto.   

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