mercoledì 19 giugno 2013

Israele, espulsioni di massa contro gli immigrati africani

di Emilio Drudi
Tel Aviv. Primo pomeriggio. Un giardinetto poco lontano da Allenby street, al margine di un vecchio quartiere di stradine e casette basse che risale alla prima metà del 1900 e oggi circondato da brutte costruzioni cadenti degli anni 70 e dai nuovi grattacieli. Su una panchina appartata siede assopito un giovane africano. Dall’aspetto si direbbe eritreo o etiope. Occhi socchiusi, la testa reclinata sul petto. Sembra abbandonarsi su se stesso. Ogni tanto sussulta, come svegliandosi di colpo. Alla fine si distende. A metà della panca c’è un bracciolo, un basso cerchio di ferro messo lì proprio per impedire che venga usata come giaciglio, ma quel ragazzo ha un corpo così esile che entra bene in quel pochissimo spazio. Dorme col viso nella penombra per una ventina di minuti. Poi, sfilando il busto e le gambe dall’anello metallico in cui li ha infilati, si alza stancamente, afferra con una mano un sacco arancione semitrasparente, mezzo pieno di bottiglie e lattine, e fa il giro dei cestini portarifiuti, recuperando qualche altra bottiglia. Non si lascia avvicinare: risponde a monosillabi e fa capire, più a gesti che a parole, che vuole essere lasciato in pace. Un minuto dopo si allontana, camminando a piedi nudi, le unghie nere e screpolate, sotto un paio di jeans sporchi e sdruciti e una maglietta nera, slabbrata da tutte le parti. Non deve avere più di vent’anni.
Meno di un chilometro più avanti, dove l’elegante, animatissimo lungomare si apre in un vasto giardino molto ben curato, prima di piegare verso l’antico borgo di Giaffa, altri due giovani africani siedono nella striscia d’ombra di un’aiuola dall’erba appena rasata. Discutono fitto con un anziano barbone bianco. Ciascuno dei due ha accanto un sacco arancione con contenitori di plastica e qualche bottiglia di birra vuota. Sono entrambi sui 25-30 anni, sicuramente molti di meno del clochard che è con loro. Sembrano più disponibili. Accettano di scambiare qualche parola. Uno dice di chiamarsi Joseph, l’altro Mike. Vengono dal Sudan. Ma non aggiungono altro. Appena si comincia a chiedere come siano arrivati in Israele, dove abitano, come vivono, si fanno subito diffidenti: salutano con un sorriso, facendo capire che il colloquio è finito, e si allontanano caricandosi su una spalla il loro sacco. Il barbone li segue a distanza. Non si voltano nemmeno.
Due ore più tardi, dalla parte opposta del lungomare, verso il porticciolo turistico, un altro giovane avanza a passi lenti sul viale invaso da ragazzi che vanno o vengono dalla spiaggia, uomini e donne che fanno jogging o si riposano sulle panchine, godendosi la brezza di maestrale. Cammina con un paio di scarpe da ginnastica che stentano a stare insieme. Veste jeans con un lungo strappo verticale sulla gamba sinistra: inizia dalla tasca e arriva sotto il ginocchio. Uno strappo vero, non come quelli “artistici” dei jeans esposti nelle vetrine dei negozi di moda casual. Poi, una camicia scura che lascia intravedere una t-shirt nera e, sopra a tutto, un giaccone di finta pelle, del tutto fuori luogo con la temperatura che sfiora i 34 gradi ma che lui si porta addosso perché probabilmente quegli abiti sono tutto il suo guardaroba, insieme a un’altra t-shirt e a un po’ di biancheria che si intravedono in una busta annodata per i manici. Ha la pelle ebano come i due sudanesi di prima. Si ferma un attimo, ma non vuole parlare. Lo fa capire con un movimento eloquente della mano e biascicando un “I do’nt understand…”. Si porta dietro l’odore di chi vive nella miseria più dura.
Sono quattro dei circa 60 mila profughi o migranti irregolari africani approdati in Israele. La metà circa sono sudanesi. Tra gli altri prevalgono gli eritrei, poi i somali e gli etiopi. Sono arrivati attraverso il deserto del Sinai, eludendo la vigilanza della polizia di frontiera e sfidando le fucilate dei militari egiziani o, peggio, l’insidia dei trafficanti di schiavi che catturano questi disperati – uomini, donne, bambini – per chiederne il riscatto: 40 mila dollari a testa. Chi non ha amici o familiari in grado di pagare rischia di essere consegnato al mercato degli organi per i trapianti clandestini o, le ragazze, ai giri della prostituzione internazionale. La maggior parte è a Tel Aviv, poi ad Eilat, Gerusalemme, Hadera e Gadera. Abitano nei quartieri più modesti e periferici, in genere in piccoli appartamenti presi in affitto, anche 8-10 per stanza. Malvisti e mal sopportati dalla gente. In particolare dai vicini. Non sono mancati episodi di violenza. Incluso qualche assalto alle loro case, con pestaggi e “punizioni” collettive. Come giusto un anno fa a Gerusalemme, dove è stato incendiato l’appartamentino di tre eritrei, tutti e tre presi e picchiati duramente da un gruppo di “giustizieri”, sulla scia di un’accusa di stupro attribuita a giovani africani e poi rivelatasi senza fondamento.
La contestazione più ricorrente è che “rubano il lavoro” agli israeliani. In realtà vivono di quello che possono. Come, appunto, la raccolta di vetro e plastica da recuperare. Anche gli addetti alla nettezza urbana selezionano e mettono insieme questo materiale. Passano in genere verso sera. I migranti africani probabilmente ne hanno studiato gli orari e li precedono, in concorrenza con qualche barbone bianco. Deve esserci qualche organizzazione alla quale fanno capo: potrebbe confermarlo anche il fatto che quasi tutti usano per la raccolta gli stessi sacchi semitrasparenti di colore arancione. Forse qualcuno fa da intermediario tra questi “recuperanti” improvvisati e la compagnia incaricata del servizio. Sta di fatto che i due sudanesi del lungomare dopo un po’ hanno raggiunto un camion fermo in una strada laterale, accanto al cantiere di un palazzo in costruzione. Un operaio, con tanto di pettorina gialla per distinguersi nel traffico, stava caricando numerosi sacchi di bottiglie e lattine usate. Loro si sono fermati qualche istante, giusto il tempo di consegnare i loro sacchi, e poi via verso un altro vagare di cestino in cestino, per mettere insieme una manciata di shekel. Ma, a parte espedienti del genere, la maggior parte di questi giovani sono braccia a buon mercato per molti settori: bassa manovalanza in edilizia, nella ristorazione, nelle campagne. E alimentano – denunciano l’agenzia Habeshia o Hotline for Migrant Workers – un vasto giro di caporalato e di sfruttamento in nero del loro bisogno. E della loro vita.
Sono le norme stesse di accoglienza ad alimentare questo paradosso. I profughi, una volta in Israele, ricevono un visto di soggiorno provvisorio, in genere di tre mesi, ma a parte un alloggio temporaneo, non hanno diritto ad assistenza e lavoro. Quasi tutti inoltrano la richiesta di asilo, per essere tutelati come rifugiati politici, in base alla convenzione Onu, che Israele è stato tra i primi governi al mondo a firmare. Sono pochissimi, però, quelli che riescono a strappare questo riconoscimento. Quanto ai migranti clandestini sfuggiti ai controlli dell’esercito lungo la frontiera, sono abbandonati a se stessi. E anche quelli regolari vivono sempre nell’incertezza. Il loro permesso di soggiorno è legato strettamente al lavoro: se lo perdono rischiano l’espulsione entro breve tempo. Sui documenti di ogni badante, ad esempio, è riportato il nome della persona assistita che fa come da garante ed è, di fatto, il vero titolare del permesso. Se l’anziano o il malato vengono a mancare, viene meno anche la “garanzia” e si può finire di colpo nella lista degli illegali.
La situazione non è mai stata facile, ma nell’ultimo anno è diventata per moltissimi addirittura drammatica. Giusto dodici mesi fa, il 3 giugno 2012, è entrata in vigore una legge che consente di chiudere in campi di internamento per un periodo fino a 3 anni, senza processo, gli immigrati irregolari. Anzi, può essere condannato a pesanti pene detentive – come ha scritto in una bella inchiesta giornalistica Dana Weiler-Polak per il quotidiano Haaretz – anche chi “aiuti i migranti o fornisca loro un rifugio”: si va dai 5 ai 15 anni di carcere. Una mazzata per quanti, arrivati dal confine egiziano, contavano sull’assistenza di parenti e amici già residenti in Israele. Sono state inoltre inasprite le pene per reati minori attribuiti dalla “voce comune” ai migranti, magari furtarelli come la sottrazione di una bicicletta. “Infrazioni – afferma Dana Weiler-Polak – per le quali in precedenza non sarebbero stati detenuti”.
I migranti arrestati dai militari lungo il confine del Sinai sono stati sempre accompagnati al centro di detenzione di Saharonim, nel Negev, capace di 2.000 posti. Quasi in concomitanza con la nuova legge, l’estate scorsa, il complesso è stato più che raddoppiato, tanto da poter ospitare ora 5.400 persone. L’internamento è l’anticamera dell’espulsione verso i paesi d’origine. Si è cominciato con i sudanesi. In particolare quelli originari del nuovo stato del Sud Sudan, istituito con capitale Giuba nel luglio del 2011. Israele ha sempre sostenuto, in funzione anti islamica, i gruppi rivoluzionari, di religione cristiana, che hanno portato alla scissione. Per questo molti, prima dell’indipendenza, hanno chiesto rifugio a Tel Aviv. Ma ora il governo israeliano ritiene che siano venute meno le condizioni per ospitarli ed ha cominciato ad ordinarne il trasferimento in massa. Senza tener conto che in realtà la situazione nel Sud Sudan è tutt’altro che pacificata: la regione è tormentata ancora da scontri, combattimenti, incursioni di bande di miliziani, persecuzioni, rapimenti. Con migliaia di sfollati che vagano senza pace. E l’impressione è che, subito dopo i sudanesi meridionali, la stessa sorte toccherà agli eritrei. Anche a questi profughi, infatti, non è permesso chiedere asilo, probabilmente sempre a causa di interessi di politica internazionale, nonostante ad Asmara continui la dittatura spietata di Isaias Afewerki.
Contro questo regime duro è esplosa la protesta delle organizzazioni umanitarie, che contestano sia la nuova legge che il sistema di detenzione. “Invece di comportarsi come tutti i paesi civili – ha dichiarato Hotline for Migrants Workers a Dana Weiler-Polak – e di verificare le richieste di asilo, garantendo lo status di rifugiato a chi ne ha diritto, cosa che Israele è obbligata a fare in base alla convenzione dell’Onu, lo Stato considera la carcerazione di massa di migliaia di persone, donne e bambini la cui sola colpa è stata il cercare di fuggire da regimi sanguinari, come la soluzione del problema. Questa soluzione non risolverà nulla, poiché non è né umana né efficace”. Il governo, tuttavia, non demorde. Le autorità carcerarie garantiscono di essere in grado “di inserire nelle proprie strutture tanti immigrati illegali quanti ne arrivano”. In verità ne arrivano sempre di meno e il problema riguarda semmai i clandestini già presenti nel Paese. Il che spiegherebbe perché questi giovani siano così diffidenti e non si lascino avvicinare facilmente da nessuno. Il flusso, arrivato in passato a registrare fino a 2.000 ingressi al mese, è rallentato e poi si è di fatto quasi interrotto da quando è stata completata la grande barriera al confine del Sinai: un muro di filo spinato pressoché invalicabile, lungo centinaia di chilometri, che completa la politica dei respingimenti nel deserto applicata negli ultimi tempi nei confronti dei fuggiaschi, disperati giunti fortunosamente in vista di quella che credevano la salvezza, dopo un viaggio denso di mille pericoli, pagato migliaia di dollari a guide e “passatori” pronti a tradirli e ad abbandonarli al minimo pericolo.
La linea autoritaria ha il pieno sostegno dell’attuale ministro degli esteri Eli Yishai, già alla guida del dicastero degli interni fino al marzo scorso, che un anno fa, intervistato dal quotidiano Maariv, ha dichiarato: “Useremo tutti gli strumenti per espellere gli stranieri, fino a quando non rimarrà alcun infiltrato”. Aggiungendo, secondo vari organi di stampa: “I musulmani che arrivano qui non pensano neppure che questo paese appartiene a noi, all'uomo bianco”.

La maggior parte della gente non condivide una posizione così oltranzista. Ma in genere giustifica la politica delle espulsioni sostenendo che Israele è troppo piccolo per essere in grado di sostenere un flusso intenso di emigrazione dall'Africa o da altri paesi. Solo che, di contro, le porte restano aperte all'emigrazione di ebrei di tutto il mondo. Anzi, questo genere di arrivi è favorito e sostenuto. La differenza, allora, sembra essere solo tra l’essere o no ebrei. E’ questo il vero nodo. Che stringe il cuore di chiunque, anche non israeliano né ebreo, ami davvero Israele e quello che la sua nascita nel maggio del 1948, sessantacinque anni fa, ha significato per il mondo intero. 

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