domenica 9 giugno 2013

Don Zerai accusa: “In Libia un lager con le insegne dell’Europa”

di Emilio Drudi

“C’è un lager a Burshada, in Libia, con la targa dell’Unione Europea e dell’Oim, l’Organizzazione intergovernativa per l’emigrazione. Nell’indifferenza generale. Del governo di Tripoli come delle cancellerie europee”. E’ l’ennesima accusa di don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. Un’accusa pesante, ma il sacerdote eritreo, da anni in prima linea per la difesa dei diritti dei profughi e dei migranti, si dice pronto a confermarla di fronte a chiunque e in qualsiasi sede, politica o giudiziaria che sia. Citando testimonianze, segnalazioni e presentando una serie di foto impressionanti. La stessa documentazione, con immagini altrettanto agghiaccianti, è disponibile per altri due lager: Bursan e Sabha.
A Burshada, a circa 150 chilometri da Tripoli, c’è un folto gruppo di prigionieri di origine eritrea: 54 giovani fuggiti dalle persecuzioni e dalle guerre del dittatore Isaias Afewerki ma intercettati dai miliziani o dalla polizia poco dopo aver varcato il confine libico, in pieno Sahara, mentre tentavano di puntare a nord, verso la costa. Più a nord ci sono arrivati, ma in catene. Ora vivono ammassati in un capannone sul quale – secondo quanto hanno raccontato in una serie di telefonate fatte eludendo la sorveglianza dei militari di guardia – compaiono le insegne della Comunità Europea e dell’Oim, la più importante istituzione internazionale per i rifugiati che, fondata nel 1951, oggi conta 149 stati membri e 12 osservatori, con 460 uffici sparsi nel mondo e quasi 6.700 operatori. 

“Quei disperati che sono riusciti a contattarmi, esponendosi a rischi enormi di ritorsioni, a pestaggi e anche peggio – racconta don Zerai – mi hanno segnalato che quasi certamente si trovano in una struttura costruita con fondi europei. Altrimenti non si spiegherebbero i cartelli affissi all’ingresso. E’ di tutta evidenza che né la Commissione europea né l’Oim sono direttamente responsabili dei maltrattamenti quotidiani che subiscono i detenuti. Anzi, certamente non ne saranno neanche al corrente in modo diretto. Ma queste denunce dovrebbero far aprire gli occhi: indurre cioè l’Unione Europea e l’Oim a rivedere la loro politica di assistenza, pretendendo precise garanzie su come vengono investiti i loro contributi alla Libia e su come sono gestiti i centri che portano le loro insegne. Come, a quanto pare, anche Burshada”.
La situazione descritta per telefono a Burshada, in effetti, è da girone dantesco. I 54 eritrei detenuti, tutti di fede cristiana, hanno raccontato a don Zerai di essere costretti a vivere ammucchiati in uno spazio ristrettissimo, ogni giorno alla mercé di miliziani ubriachi o drogati, che sparano all’impazzata o si divertono a scagliare pietre nel mucchio, come a un tiro a segno. Un incubo narrato anche da eloquenti fotografie “rubate” con un cellulare e fatte arrivare clandestinamente ad Habeshia. “I contributi europei – denuncia don Zerai – vengono forse impiegati per costruire lager dove torturare i prigionieri? Se, come tutto sembra confermare, le denunce di questi 54 giovani hanno un fondamento, c’è da chiedersi allora in che cosa consista e se si è riflettuto davvero sul ‘valore’ della cooperazione tra l’Unione Europea e la Libia per combattere l’emigrazione clandestina”. 

Sono dubbi che acquistano forza ancora maggiore alla luce dalle segnalazioni terribili che giungono dal campo di Surman, sempre nel nord del paese, dove sono trattenute oltre cento donne: 95 eritree, 10 etiopi e altre 10 originarie di vari paesi dell’Africa Occidentale. Una decina sono in stato di gravidanza. Alcune all’ottavo o addirittura al nono mese. Sono quelle che soffrono di più. “Nessuna di loro – hanno riferito ad Habeshia – ha mai visto un medico da quando sono in Libia. Non c’è assistenza né tanto meno controlli preventivi”. C’è da credere che il parto avverrà nelle condizioni infernali del lager, dove la situazione igienico-sanitaria è spaventosa e c’è un affollamento soffocante. L’unico aiuto può venire dalle compagne. Sono tutte terrorizzate. Per sé e per la sorte che attende i loro piccoli. Senza contare le detenute malate. Sempre più numerose, visti i maltrattamenti e le condizioni di vita nel campo. Malate anche gravi: di cuore, all’utero, di asma. E, tutte, “malate di lager”: tra soprusi, percosse, sevizie, carenza di cibo e persino di acqua da bere, fanno sempre più fatica a sopravvivere. Con queste giovani ormai allo stremo ci sono anche una quindicina di bambini in tenerissima età: il più grande ha solo cinque anni, il più piccolo appena sette mesi. Bambini ai quali viene rubata giorno per giorno l’infanzia, costretti a vivere da prigionieri insieme alle loro mamme.
Infine, Sabha, uno dei campi più grandi della Libia, nella regione centro-meridionale. Secondo le ultime segnalazioni, vi sono ammassati oltre 1.300 prigionieri, in spazi ristrettissimi: una condizione del tutto analoga a quella illustrata dalle immagini fatte uscire clandestinamente da Burshada. Torture, pestaggi, fame, sete sono la vita quotidiana dietro le sbarre per uomini, donne e bambini. Nessuna speranza che le cose possano migliorare. Non a breve, comunque: i poliziotti sono i padroni assoluti del campo. Senza controlli. 

“E’ come un tunnel nero senza fine – protesta don Zerai – Se persone bisognose di protezione internazionale sono tenute anche in un lager nel quale sono visibili le targhe dell’Unione Europea e dell’Oim, organismi che dovrebbero rappresentare salvezza e accoglienza, bisogna chiedersi chi deve tutelare i profughi e i rifugiati. Allora non posso non lanciare due appelli all’Europa. Il primo, il più immediato, è quello di rivedere i suoi rapporti con la Libia, per esigere il rispetto dei diritti umani e porre fine alle sofferenze e alle discriminazioni a cui sono sottoposti i migranti di religione cristiana e quelli di origine sub sahariana. Va rivista subito, insomma, tutta la politica sul controllo dell’emigrazione, a cominciare dai disastrosi patti bilaterali fra Tripoli e diverse cancellerie europee. Inclusa, in particolare, l’Italia. Poi, una richiesta di carattere più generale, per cercare di risolvere il problema alla radice: vanno combattuti i motivi che spingono tanti uomini e donne dell’Africa Orientale a lasciare la loro terra per cercare un futuro migliore, un posto dove poter vivere liberi e in pace. Serve, per questo, una seria lotta contro la fame e la carestia, le guerre e le dittature. L’Unione Europea ha la possibilità e i mezzi per imboccare questa via rivoluzionaria. Manca la volontà politica. Ma denunciare le alleanze e la collaborazione con certi regimi, oggi giustificate da interessi economici, è l’unica via per non diventare complici di crimini fatti di maltrattamenti inumani, di carceri dove  i detenuti vengono massacrati di botte e uccisi, di traffici di schiavi gestiti spesso da uomini in divisa, oltre che da predoni fuori legge”. 


Il 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale dei rifugiati. Alla luce delle denunce che, al pari di questa, da anni continuano ad arrivare da parte dell’agenzia Habeshia ma anche di numerose altre organizzazioni per i diritti umani e l’assistenza ai profughi – come Everyone, Human Rights Watch, la Commissione per gli emigrati eritrei in Gran Bretagna, l’israeliana Hotline for Migrant Workers, Physicians for Human Rights Israel, il Movimento eritreo per la democrazia, l’America Team per gli sfollati eritrei – si pone l’esigenza di dare una svolta a questo appuntamento annuale di riflessione e solidarietà. Don Zerai non nasconde la sua amarezza: “Complice la crisi economica, ma anche sociale e morale, si registra un forte regresso dei diritti umani in tutta l’Europa, dove avanzano sempre di più le politiche meno propense all’accoglienza e tendenti alla chiusura più egoistica, per tutelare i privilegi di pochi. In certi casi si sono fatte scelte apertamente xenofobe. Si respira un forte senso di insicurezza, spesso diffusa ad arte amplificando a dismisura le notizie di cronaca che vedono coinvolti gli extracomunitari e inventando addirittura un reato inesistente come quello di ‘clandestinità’. Quasi sempre per un tornaconto elettorale. Ora anche la Svizzera, tradizionalmente più aperta all’emigrazione, si appresta a celebrare un referendum chiesto da chi vuole modificare le leggi sul diritto di asilo, con l’obiettivo di chiudere le porte in faccia a migliaia di profughi. L’Europa nel suo insieme preferisce finanziare paesi come la Libia, consegnando alle carceri di Tripoli migliaia di disperati in fuga da Eritrea, Somalia, Etiopia, Sudan. La Giornata dei rifugiati può diventare l’occasione per un segnale diverso: per chiedere tutti insieme di invertire la rotta all’Unione Europea e ai governi dei vari Stati membri. Non c’è nulla da celebrare. Piuttosto da protestare e denunciare. Se non sarà così, questo appuntamento resterà un involucro vuoto. Che non avrà senso replicare. E che rischia anzi di diventare un alibi”.

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