mercoledì 26 giugno 2013

Appello al Ministro dell'Interno On. Angelino Alfano

Eccellenza On. Angelino ALFANO
Ministro dell'Interno
Italia
 
 Eccellenza Sig. Ministro,
    Mi rivolgo a Lei Ministro pre fare appello in favore dei richiedenti asilo e rifugiati ospitati nel CARA di Caltanisetta.
Rivedere l'attuale procedura e il trattamento riservato ai richiedenti asilo politico nei Centri di accoglienza richiedenti asilo (CARA) come quello di Caltanissetta, perché non venga chiesto a loro di pagare, il rilascio del primo permesso e il titolo di viaggio a chi non possiede neanche un euro. Stando alle testimonianze raccolte dal sottoscritto, ai profughi viene chiesto il pagamento di euro; 127,00 per il ricevere il titolo di viaggio. Come Lei sa bene queste persone, sono state letteralmente pescate in mare', cioè senza un euro in tasca. Dal loro arrivo fino ad ora sono ospiti della struttura, quindi non hanno nessuna possibilità di lavorare, di conseguenza nessun guadagno, e non sono in grado di pagare la somma richiesta. Chiedo a Lei Signor Ministro di rivedere questa richiesta, anche perché in tutti i Paesi europei il rilascio del primo permesso e il documento di viaggio e a carico dello Stato che accoglie. Il dramma di questi profughi: senza denaro, cibo, né alloggio, nonostante il parere positivo della Commissione territoriale. Si ritrovano per strada senza nessun documento valido, se non il cedolino.
Rifugiati "costretti" o messi nella condizione di mendicare un piatto di minestra, e costretti a dormire per le strade di Caltanissetta. Chiedo a Lei Ministro, che venga garantita a questi richiedenti asilo e rifugiati, la protezione e tutto l'iter previsto per la loro integrazione nella società italiana. Normalmente dopo il riconoscimento da parte della Commissione territoriale al richiedente lo status di rifugiato o pure la protezione sussidiaria, dovrebbe avvenire il loro trasferimento nei circuiti dello SPRAR o altri centri simili che accompagnano il cammino di integrazione del rifugiato, verso il pieno inserimento. Quello che sta accadendo in questi giorni a Caltanissetta è l'esatto contrario: le persone, ricevuto l'esito della decisione della Commissione territoriale, senza neppure ricevere tutti i documenti, si ritrovano fuori dal CARA, gli si dice tornate dopo 40 giorni a prendere i documenti, questo senza che nessuno si preoccupi di cosa mangeranno o dove alloggeranno queste persone, esposti ad ogni pericolo e sfruttamento. Questo modo di procedere non garantisce la sicurezza e protezione ai rifugiati, tanto meno ai cittadini Catanesi che si vedono riempirsi le loro strade di rifugiati costretti a mendicare e gente che dorme nei portoni di case o chiese.
 
don. Mussie Zerai

lunedì 24 giugno 2013

GIORNATA ONU VITTIME DI TORTURA: ANCORA TROPPE VITTIME, ANCORA TROPPO SILENZIO

CS: GIORNATA ONU VITTIME DI TORTURA: ANCORA TROPPE VITTIME, ANCORA TROPPO SILENZIO

In occasione della Giornata Internazionale a Sostegno delle Vittime di Tortura, che si celebra il 26 giugno, il Consiglio Italiano per i Rifugiati, organizza assieme alla campagna LasciateCIEntrare e Antigone un evento per denunciare la tortura comunque e ovunque, non solo come pratica diffusa in paesi lontani ma anche come fenomeno presente qui e ora, nei Centri di Identificazione ed Espulsione e nelle nostre carceri. L’Italia purtroppo non può ancora dirsi libera dalla tortura: non ha introdotto la tortura come un reato specifico nel suo codice penale, nonostante l’obbligo direttamente derivante dalle Convezioni internazionali, e sono tanti, troppi, i fatti di cronaca che hanno raccontato drammatiche violenze esercitate volontariamente da uomini su altri uomini. Un tema di cui non si parla, e che non si affronta con la necessaria fermezza, nonostante la sua dimensione ancora così drammatica. Un taboodella parola, ma non purtroppo dei fatti. Secondo i dati di Amnesty International sono infatti 112 i paesi dove nel 2012 si è praticata la tortura o trattamenti inumani o degradanti. E un rifugiato su tre, tra quelli che arrivano nel nostro paese, ha personalmente subito esperienze di tortura.

 “Di Untori e altri demoni”  evento spettacolo che riunisce video, teatro e testimonianze martedì 25 giugno 2013 al Teatro Palladium alle ore 20.30, ingresso libero. La serata prevede il monologo “La slegatura” di Erri De Luca per la campagna LasciateCIEntrare, la proiezione del webdoc “Inside Carceri” realizzato da Antigone e Next New Media, e la performance teatrale "Di Untori e Altri Demoni" - interpretata da un gruppo di 15 rifugiatisopravvissuti a esperienze di tortura e violenza estrema, che per 5 mesi hanno partecipato al laboratorio di riabilitazione psico-sociale promosso nell’ambito del progetto Together with Vi.To. – progetto di Accoglienza e Cura delle Vittime di Tortura del CIR. Formatori e registi Nube Sandoval e Bernardo Rey.

Nella serata è prevista anche la raccolta firme per l’iniziativa “Tre leggi per la giustizia e i diritti: tortura, carceri, droga” di cui Antigone e Consiglio Italiano per i Rifugiati sono tra i promotori. 3 proposte di legge popolare per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale e per provvedimenti che possano contrastare il sovraffollamento carcerario.

Le vittime di tortura sono segnate da ferite e traumi che richiedono risposte specifiche, in grado di ricostruire ciò che la violenza della tortura e dell’esilio hanno distrutto: la loro identità familiare, legale, economica, politica, culturale, sociale. Proprio per dare risposte a questi bisogni il Consiglio Italiano per i Rifugiati gestisce dal 1996 progetti (attualmente con il sostegno della Commissione Europea e del Fondo Volontario delle Nazioni Unite per le Vittime di Tortura) che mettono in atto azioni mirate alla riabilitazione delle persone sopravvissute a tortura. I progetti prevedono una prospettiva di lavoro multidisciplinare: gli interventi di tipo sociale, legale, medico, psicologico e i laboratori di riabilitazione si uniscono concorrendo alla realizzazione di un positivo percorso di riabilitazione e integrazione. Nel corso di 17 anni di lavoro abbiamo assistito circa 3.000 persone sopravvissute a torture. Attualmente il progetto ha in carico circa 600 nuclei familiari di richiedenti asilo e rifugiati sopravvissuti a tortura. La tortura mira alla distruzione dell’identità delle sue vittime e  ha un effetto dirompente sulla psiche di chi la subisce, determinando veri e propri stati di frammentazione psichica. Recuperare i frammenti per poter ricostruire una “storia che cura”, per integrare l’indicibile, è un processo difficile da compiere, ed è necessario uno spazio intermedio in cui sia possibile uno scambio simbolico. In questo spazio si colloca l’esperienza del laboratorio di riabilitazione psico-sociale attraverso il teatro, dove l’utilizzo delle metafore può recuperare quei piccolissimi frammenti di vita umana rimasti impigliati nel silenzio. La possibilità di ricostruire una biografia e una identità spezzate si fonda su questo linguaggio metaforico, su parole, gesti, sonorità e ruoli che attraverso il teatro riescono a funzionare da ponti, da nicchie dove ricomporre la narrabilità dell’umana e disumana esperienza.

Lo spettacolo Di Untori e Altri Demoni
Di Untori e Altri Demoni”, è uno spettacolo a due binari, che si affiancano e si integrano fra loro. Da una parte la “Storia della Colonna Infame” in cui vengono narrati i fatti accaduti nel 1630, in una Milano che, devastata dalla peste, perseguitava tutti coloro ritenuti a torto o a ragione untori. Venivano così accusate, torturate e uccise, persone innocenti. E la persecuzione continuava dopo la morte: prima con la demolizione della casa e poi con l’erezione di una colonna, una colonna infame, come simbolo in grado di ricordare ai posteri la colpa, la condanna e la pena degli accusati. Dall’altra parte, ci sono gli “attori-rifugiati”, che in un binario parallelo, ci raccontano tratti della loro vita, dei loro sogni, delle loro frustrazioni e speranze al giorno d’oggi. Della loro fuga  e della loro angoscia di essere ritenuti i nuovi untori.


Ulteriori informazioni
UFFICIO STAMPA CIR  
Valeria Carlini
tel. + 39 06 69200114 int. 216 
+39 335 17 58 435
E-mail: carlini@cir-onlus.org  

Sito www.cir-onlus.org   

domenica 23 giugno 2013

Israel: risk of deportation for thousands of Refugees


Emilio Drudi

"I am willing to accept a transfer to Israel only if coordinated with the UN High Commissioner for Refugees and the international community. But I heard that we want to throw in a third country where our lives would never be safe. There is talk of Uganda, Nigeria or Kenya. They are all places are not safe for us to be there, they can deport in Eritrea ": Gabriel, born in Asmara, 31, from six in Tel Aviv, expressed to the newspaper Haaretz any concern of thousands of young refugees like him in front of the new provisions of the Netanyahu government. Against refugees and migrants is looming in fact a mass expulsion. Indeed, the progressive media like Haaretz, talks about real deportation.
And 'anguish which invests more than 60,000 men and women, almost all young, sometimes whole families with children. Half are Sudanese. Then, almost 20,000 Eritreans. Among other groups prevail Ethiopians and Somalis. Desperate fled war, political persecution, discrimination, hunger and famine. They got almost all through the wilderness of Sinai, in defiance of the Egyptian border police shot and controls the Israeli army. Or the slave-traders who hunt fugitives to like them, capture them and ask for a ransom to free them of up to $ 40,000 per head: those who can not pay are likely to be sold on the market of organs for transplantation or illegal , girls, into prostitution. It 'a massacre which now has hundreds, thousands of victims. The indifference of the international community. But even for the lucky ones who have managed to achieve it, Israel has not proved the "promised land" that they hoped.
After crossing the border, the asylum seeker is granted a temporary visa, generally for three months, and it's guaranteed accommodation. They have no right, however, to other forms of assistance or job opportunities. They are mostly concentrated in the suburbs of Tel Aviv but there are also numerous in Elat, Jerusalem and two other small towns, Hadera and Gadera, chosen by the government when it was considered that in Tel Aviv there were too many. Their life is not easy. It never has been. They live in small rented houses. Six, eight, even ten to a room. And make do as they can, often exploited as cheap black arms for the construction industry, agriculture, services of manpower. Without protection, without the possibility of protest and generally looked upon with suspicion and hostility. There were, indeed, episodes of severe intolerance. Just a year ago, in early June 2012, in Jerusalem Molotov cocktails were thrown at a house that housed a dozen Eritreans, four were taken to hospital for burns or intoxicated by smoking. The motive of this authentic punitive expedition has shown beyond any possible doubt drawn by the writings on the wall of the building, "Go away ...". Similar attacks, as demonstrated by a news report of the Post, were recorded in previous weeks in Tel Aviv, always of homes, shops and even a nursery school for African children.
Who does not have a valid visa is likely to end up in the detention center Saharonim, in the Negev, where they are also worn all irregular migrants caught at the border by the military. A hard line that last year the government has decided to tighten even further, arguing that "illegal infiltrators" threaten "the Israeli national identity." June 3, 2012 came into effect a law that allows you to close in internment camps for a period up to 3 years, without trial, immigrants who do not comply. Indeed, it may be sentenced to heavy prison sentences - as reported by Dana Weiler-Polak in a service in Haaretz - even those who "aid migrants and provide them with shelter." E 'was also completed the construction of a barbed wire fence that follows the border with Egypt in the Sinai desert for hundreds of miles. The avowed aim is to control the border against incursions of terrorists but the first real concrete result is actually the realization of an insurmountable obstacle for refugees from Sudan and the Horn of Africa.
In order to justify this type of measure is always insists on the fact that it is "irregular". Infiltrate. But it is quite clear that anyone who is forced to flee persecution and discrimination faced in their own country, can only be an immigrant "irregular" arrives at the border as illegal because it is a haunted desperately looking for help and assistance. As provided for by international agreements. Only that Israel, despite being among the first to sign the Geneva Convention of 1951 on the rights of refugees, it shows less and less willing to give these desperate refugee status. In particular, the Sudanese of the new state of Southern Sudan, established in 2011 with capital of Juba, on the pretext that now, after the separation from Khartoum, would no longer have reason to flee. The same fate, however, the Sudanese in the north and the Eritreans. The result is a comprehensive program of expulsion, now greatly reduced the flow of new immigrants after the construction of the barrier on the Egyptian border, reflects primarily the 60,000 immigrants already residing in Israeli cities, perhaps for years.
Do not miss the protests, especially by humanitarian organizations, such as Hotline for Migrants Workers or Habeshia agency to which the progressive press has devoted a lot of room. The government, however, insists on the hard line. Not surprisingly, the field of Saharonim, which could accommodate up to 2,000 prisoners, was nearly tripled the capacity is now more than 5,400 places but if necessary you plan to enlarge it further. And it is as eloquent as he said months ago the newspaper Maariv the current foreign minister, Eli Yishai, then charge of the department of the interior: "We will use all means to expel all foreigners, until it will no infiltrator". The only serious obstacle for this policy was that it is difficult to expel these desperate people to their countries of origin, devastated by wars and dictatorships, and where they expect the prison or even death. Where there are still other words, the conditions that forced them to flee. Now he's found a way around this problem: it is these days the news that you are entering into agreements with a third country in which to transfer the refugees.
It is not known which country it is. The Rebirth online magazine writes that it would be an African nation which - as reported by the Israeli army radio - would share "common interests" with Tel Aviv. The news, however, has been reported with great relief by the Israeli progressive press, starting with the Haaretz newspaper. Four hypotheses: Uganda, Ethiopia, Kenya and South Sudan. Newspapers and humanitarian organizations have been raised strong doubts about the legality of the measure. However, the Supreme Court in Jerusalem, Advocate informed the government Yochi Gnesin, made no objection whatsoever. And the plan now would be to shoot. A plan, indeed, "a society of deportation," said Haaretz in an article taken from Rebirth, adding that the new measure, aimed particularly against Sudanese and Eritreans, reflects "the contempt of the Netanyahu government" against African blacks, often asylum seekers. "Instead of coping with their difficulties - the newspaper of Tel Aviv - you prefer to expel them." "The new measure - adds Rebirth - has aroused the concern of the African community in the country. Speaking to Haaretz, the immigrants said they feared being deported against their will and without any guarantee on respect for their rights. To avert this hypothesis have therefore asked the Israeli authorities to accommodate their requests for asylum, recognizing refugee status, before proceeding to any such transfer. " Here are the statements of numerous migrants: "If you do not protect my rights in Israel - such as protest Bob, 27, arrived from Eritrea in 2009 - how do I know that we will defend in another country? We need to know what the country. And how they treat refugees there ... ".
According to humanitarian organizations, there is no doubt that, despite the agreement sanctioned by the Supreme Court, this provision violates the Geneva Convention of 1951 and the same human rights. An attempt at justification by the Israeli government, it could be that the United Nations, recognizing that the problem of refugees is a supra-national in scope, provide for apportioning the costs through international cooperation. For example, a country that borders another state of war, can not be left alone to cope with the expected huge influx of displaced. The burden of care are divided. "The choice of Israel is not within this context - notes Habeshia - It seems rather the buck of a rich country to a poor one. What's more, you do not have any guarantee that the country where refugees relocate it really protect the rights. It 'a fear that regard, in varying degrees, all four were mentioned by rumors these days. That's why the program in more than a transfer seems a deportation. With a huge risk, in particular, for the Eritreans that, if returned somehow to the dictatorship of Isaias Afewerki, are intended as a minimum to jail. "
There are those who remember how precisely because of this terrible situation every year more than 70 percent of Eritrean asylum-seekers all over the world get the recognition of refugee entails, says the UN convention, "protection against refoulement" guarantees, as well as the refugee himself to his family, "access to civil, political, economic, social, equal to those enjoyed by nationals of the receiving State", with the possibility "of becoming a naturalized citizen in the end." All this - is the conclusion - does not occur in Israel and it is doubtful that it will happen in the country where Tel Aviv intends to transfer the African refugees. Haaretz cites no coincidence that hundreds of immigrants expelled from Israeli jails in the recent past in which they were detained. "Where are you today?", Questions the liberal daily. There is no answer: no one seems to know what happened to them in practice.

Israele: rischio di deportazione per migliaia di immigrati

di Emilio Drudi

“Sono disposto ad accettare un trasferimento da Israele soltanto se coordinato con l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati e la comunità internazionale. Ma ho sentito che ci vogliono gettare in un paese terzo dove le nostre vite non sarebbero al sicuro. Si parla di Uganda, Nigeria o Kenya. Sono tutti posti non sicuri per noi: da lì possono deportarci in Eritrea”: Gabriel, originario di Asmara, 31 anni, a Tel Aviv da sei, ha espresso al quotidiano Haaretz tutta la preoccupazione di migliaia di giovani profughi come lui di fronte ai nuovi provvedimenti del governo Netanyahu. Nei confronti di rifugiati e migranti si profila infatti una espulsione di massa. Anzi, la stampa progressista come Haaretz, parla di vera e propria deportazione.
E’ un’angoscia che investe oltre 60 mila uomini e donne, quasi tutti giovani, talvolta famiglie intere con i bambini. La metà sono sudanesi. Poi, quasi 20 mila eritrei. Tra gli altri gruppi prevalgono gli etiopi e i somali. Disperati fuggiti da guerre, persecuzioni politiche, discriminazioni, fame e carestia. Sono arrivati quasi tutti attraverso il deserto del Sinai, sfidando le fucilate della polizia di frontiera egiziana e i controlli dell’esercito israeliano. O i trafficanti di schiavi che danno la caccia a fuggiaschi come loro, li catturano e chiedono per liberarli un riscatto che arriva fino a 40 mila dollari a testa: chi non riesce a pagare rischia di essere venduto sul mercato degli organi per i trapianti clandestini oppure, le ragazze, nel giro della prostituzione. E’ un massacro che conta ormai centinaia, migliaia di vittime. Nell’indifferenza della comunità internazionale. Ma anche per i più fortunati, quelli che sono riusciti a raggiungerlo, Israele non si è rivelato la “terra promessa” che speravano.
Superato il confine, ai richiedenti asilo è concesso un visto provvisorio, in genere di tre mesi, e viene assicurato un alloggio. Non hanno diritto, però, ad altre forme di assistenza o possibilità di lavoro. Sono concentrati soprattutto nella periferia di Tel Aviv ma ce ne sono numerosi anche a Elat, Gerusalemme e altre due piccole città, Hadera e Gadera, scelte dal governo quando si è ritenuto che a Tel Aviv ce ne fossero troppi. La loro vita non è facile. Non lo è mai stata. Abitano in piccole case prese in affitto. Sei, otto, persino dieci per stanza. E si arrangiano come possono, sfruttati spesso come braccia in nero a buon mercato per l’edilizia, l’agricoltura, servizi di manovalanza. Senza tutele, senza la possibilità di protestare e guardati in genere con sospetto e ostilità. Non sono mancati, anzi, episodi di grave intolleranza. Giusto un anno fa, all’inizio di giugno 2012, a Gerusalemme sono state lanciate bottiglie molotov contro una casa che ospitava una decine di eritrei: quattro sono finiti in ospedale per le ustioni o intossicati dal fumo. Il movente di questa autentica spedizione punitiva è emerso senza possibilità di dubbi dalle scritte tracciate sul muro dell’edificio: “Andatevene via…”. Attacchi analoghi, come segnala un servizio giornalistico del Post, si erano registrati nelle settimane precedenti a Tel Aviv, sempre contro abitazioni, negozi e persino un asilo frequentato da bambini africani.
Chi non ha il visto valido rischia di finire nel centro di detenzione di Saharonim, nel Negev, dove vengono portati anche tutti i migranti irregolari sorpresi al confine dai militari. Una linea dura che nell’ultimo anno il governo ha deciso di inasprire ancora di più, sostenendo che “gli infiltrati illegali” minacciano “l’identità nazionale israeliana”. Il 3 giugno 2012 è entrata in vigore una legge che consente di chiudere in campi di internamento per un periodo fino a 3 anni, senza processo, gli immigrati non in regola. Anzi, può essere condannato a pesanti pene detentive – come riferisce Dana Weiler-Polak in un servizio su Haaretz – anche chi “aiuti i migranti o fornisca loro un rifugio”. E’ stata completata, inoltre, la costruzione di una barriera di filo spinato che segue il confine con l’Egitto nel deserto del Sinai per centinaia di chilometri. Il fine dichiarato è il controllo della frontiera contro eventuali incursioni di terroristi ma il primo vero risultato concreto è in realtà la realizzazione di un ostacolo insuperabile per i profughi in fuga dal Sudan e dal Corno d’Africa.
Per giustificare questo genere di provvedimenti si insiste sempre sul fatto che si tratta di “irregolari”. Infiltrati. Ma è fin troppo evidente che chiunque sia costretto a fuggire per le persecuzioni e le discriminazioni subite nel proprio paese, non può che essere un emigrato “irregolare”: arriva al confine come clandestino proprio perché è un perseguitato alla ricerca disperata di aiuto e assistenza. Come prevedono gli accordi internazionali. Solo che Israele, nonostante sia stato tra i primi a firmare la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei profughi, si mostra sempre meno disposto a concedere a questi disperati lo status di rifugiati. In particolare ai sudanesi del nuovo stato del Sud Sudan, istituito nel 2011 con capitale Giuba, con il pretesto che ormai, dopo la separazione da Khartoum, non avrebbero più motivo di fuggire. La stessa sorte tocca tuttavia ai sudanesi del nord e agli eritrei. Ne è nato un vasto programma di espulsione che, ormai fortemente ridotto il flusso di nuovi migranti dopo la costruzione della barriera sul confine egiziano, riguarda essenzialmente i 60 mila immigrati già residenti nelle città israeliane, magari da anni.
Non mancano le proteste, soprattutto da parte delle organizzazioni umanitarie, come Hotline for Migrants Workers o l’agenzia Habeshia, alle quali la stampa progressista ha dedicato ampio rilievo. Il governo, però, insiste sulla linea dura. Non a caso il campo di Saharonim, che poteva ospitare fino a 2.000 prigionieri, è stato quasi triplicato: la capienza è ora di oltre 5.400 posti ma se sarà necessario si prevede di ingrandirlo ulteriormente. Ed è eloquente quanto ha dichiarato mesi fa al quotidiano Maariv l’attuale ministro degli esteri Eli Yishai, allora titolare del dicastero degli interni: “Useremo tutti gli strumenti per espellere tutti gli stranieri, fino a quando non rimarrà alcun infiltrato”. L’unico serio ostacolo per questa politica era che è difficile espellere questi disperati verso i paesi d’origine, sconvolti da guerre e dittature e dove li aspettano il carcere o addirittura la morte. Dove ci sono ancora, cioè, le condizioni che li hanno costretti a scappare. Adesso si è trovato il modo di aggirare anche questo problema: è di questi giorni la notizia che si stanno stipulando accordi con un paese terzo nel quale trasferire i profughi.
Non è noto di quale paese si tratti. La rivista Rinascita online scrive che sarebbe una nazione africana la quale – secondo quanto riferito dalla radio dell’esercito israeliano – condividerebbe “interessi comuni” con Tel Aviv. La notizia, in ogni caso, è stata riportata con grande rilievo dalla stampa progressista israeliana, a cominciare dal quotidiano Haaretz. Quattro le ipotesi avanzate: Uganda, Etiopia, Kenya e Sud Sudan. Giornali e organizzazioni umanitarie hanno subito sollevato forti dubbi sulla legittimità del provvedimento. Tuttavia la Corte Suprema di Gerusalemme, informata dall’avvocato del governo Yochi Gnesin, non ha fatto obiezioni di alcun tipo. E il piano starebbe ormai per scattare. Un piano, anzi, “una società di deportazione”, ha commentato Haaretz in un servizio ripreso da Rinascita, aggiungendo che questo nuovo provvedimento, rivolto in particolare contro sudanesi ed eritrei, riflette “il disprezzo del governo Netanyahu” nei confronti dei neri africani, spesso richiedenti asilo. “Invece di far fronte alle loro difficoltà – scrive il giornale di Tel Aviv – si preferisce espellerli”. “La nuova misura – aggiunge Rinascita – ha destato la preoccupazione della comunità africana presente nel paese. Interpellati da Haaretz, gli immigrati hanno detto di temere di essere deportati contro la loro volontà e senza alcuna garanzia sul rispetto dei loro diritti. Per scongiurare tale ipotesi hanno quindi chiesto alle autorità israeliane di accogliere le loro istanze di asilo, riconoscendone lo status di rifugiati, prima di procedere a qualsiasi trasferimento”. Seguono le dichiarazioni di numerosi migranti: “Se non proteggono i miei diritti in Israele – protesta ad esempio Bob, 27 anni, arrivato dall’Eritrea nel 2009 – come faccio a sapere che li difenderanno in un altro paese? Dobbiamo sapere qual è il paese. E come trattano lì i rifugiati…”.
Secondo le organizzazioni umanitarie, non c’è dubbio che, nonostante l’accordo sancito dalla Corte Suprema, questo provvedimento viola la convenzione di Ginevra del 1951 e i diritti stessi dell’uomo. Un tentativo di giustificazione, da parte del governo israeliano, potrebbe essere che le Nazioni Unite, riconoscendo che quello dei profughi è un problema di portata sovranazionale, prevedono di ripartirne gli oneri attraverso la cooperazione internazionale. Ad esempio, un paese che confina con un altro in stato di guerra, non può essere lasciato da solo a far fronte al prevedibile, enorme flusso di sfollati. Gli oneri dell’assistenza vanno divisi. “La scelta di Israele non rientra in questo contesto – rileva Habeshia – Appare piuttosto lo scaricabarile di un paese ricco verso uno povero. Per di più, non si ha nessuna garanzia che il paese dove ricollocare i rifugiati ne proteggerà davvero i diritti. E’ un timore che riguarda, in varia misura, tutti e quattro gli stati indicati dalle indiscrezioni di questi giorni. Ecco perché quella in programma più che un trasferimento sembra una deportazione. Con un rischio enorme, in particolare, per gli eritrei che, se riconsegnati in qualche modo alla dittatura di Isaias Afewerki, sono destinati come minimo al carcere”.

C’è chi ricorda come proprio per questa terribile situazione ogni anno oltre il 70 per cento dei richiedenti asilo eritrei in tutto il mondo ottenga il riconoscimento di rifugiato che comporta, si legge nella convenzione dell’Onu, “la protezione contro il respingimento” e garantisce, oltre che al rifugiato stesso anche alla sua famiglia, “accesso ai diritti civili, politici, economici, sociali uguali a quelli di cui godono i cittadini dello Stato ricevente”, con la possibilità “di diventarne alla fine un cittadino naturalizzato”. Tutto questo – è la conclusione – non si verifica in Israele ed è lecito dubitare che possa accadere nel paese dove Tel Aviv intende trasferire i profughi africani. Haaretz cita non a caso le centinaia di emigranti espulsi nel recente passato dalle carceri israeliane nelle quali erano detenuti. “Dove sono oggi?”, si interroga il quotidiano progressista. Non c’è risposta: nessuno sembra sapere in pratica che fine abbiano fatto.   

giovedì 20 giugno 2013

IN ITALIA VIOLATI DIRITTI DI ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI ASILO

20 giugno 2013

GIORNATA MONDIALE RIFUGIATO
CIR: IN ITALIA VIOLATI DIRITTI DI ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI ASILO

Ahmed arriva dall’Afghanistan a Roma e dal primo momento in cui chiede asilo alla questura al momento in cui viene inserito in un centro di accoglienza passano 38 giorni in cui dorme per strada e in una tendopoli. Fahime arriva dal Pakistan e dal momento in cui chiede asilo a Gorizia alla prima notte in un centro di accoglienza passano 11 giorni, durante i quali solo grazie alla carità e alla buona volontà di privati e associazioni trova ogni notte un tetto diverso dove stare. Mohamed sta vivendo per strada a Roma da 30 giorni, da quando è arrivato il 22 maggio e ha provato a chiedere asilo.

Ma Ahmed, Fahime e Mohamed sono solo che tre delle centinaia di persone che in questo momento pagano sulla loro pelle un problema strutturale del sistema d’asilo italiano: l’incapacità di dare accoglienza subito a quanti fanno una richiesta di asilo nel nostro paese. “La legge italiana e quella europea sono inequivocabili: prevedono che ogni richiedente asilo che arriva in Italia senza adeguati mezzi di sostentamento ha diritto a forme materiali di accoglienza sin dal momento in cui presenta domanda di protezione. La ragione è chiara, sono persone in fuga dai loro paesi di origine perché perseguitate, perché c’è una guerra, scappano per mettere in salvo la propria vita cercando di arrivare in un Paese sicuro senza, molto spesso, alcun tipo di mezzo di sostentamento. Rispetto ai migranti economici non hanno elaborato un progetto migratorio che li sostenga. Per questo quando arrivano in Italia e in Europa hanno davvero bisogno di tutto, sia da un punto di vista legale che materiale. E’ grave che persone che hanno diritti riconosciuti vivano mesi per strada. Perché devono pagare loro sulla loro pelle quello che non funziona nel sistema italiano?” si domanda Christopher Hein direttore del CIR.

Di regola un richiedente asilo dovrebbe essere accolto a seconda della condizione personale nei CARA, centri governativi, o nello Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, sistema però numericamente insufficiente, nel 2013 erano  previsti solo 3.700 posti che dovrebbero a breve essere potenziati a 5.000. Ma ormai anche i CARA italiani sono al limite della loro capacità recettiva e non hanno più la possibilità di inserire nuovi richiedenti asilo. Sono molte, in diverse parti d’Italia, le persone costrette ad attendere settimane o mesi prima di vedersi riconosciuto un diritto individuale. Qualora non ci sia posto né nel circuito dello SPRAR né in quello dei CARA, la legge prevede, che i richiedenti asilo ricevano un contributo economico giornaliero dalle Prefetture. Contributo che, come CIR, non abbiamo mai visto erogare.

“Pensiamo siano molto positive le parole del Ministro Alfano che ha annunciato un aumento fino a 8.000 posti  dello SPRAR, ma speriamo che alle parole seguano subito dei fatti concreti. E che dai centri di accoglienza si entra e si esca con una buona continuità, senza ingolfare il sistema, per fare questo sempre di più si dovrà puntare su percorsi di integrazione che facilitino l’uscita” dichiara Christopher Hein.  

Ma al momento sono ancora diversi i tasselli che nel sistema italiano ad oggi non funzionano. Il diritto all’accoglienza dovrebbe scattare dal momento della presentazione della domanda d’asilo. Ma nella prassi invece in molte città il richiedente asilo viene considerato tale solo quando viene verbalizzata la domanda presso la Questura. Questo processo in una città come Roma può richiedere anche un mese, a Caserta diversi mesi, stanno in questo momento stanno dando appuntamenti per il 2014. Inoltre in alcune questure, come quella di Roma, non viene fornita l’informazione sui diritti di accoglienza riconosciuti ai richiedenti asilo e, conseguentemente, non viene raccolta la loro necessità di avere un posto o un supporto economico. Senza questa dichiarazione non parte nessuna domanda di accoglienza per il richiedente asilo. Anche quando questa richiesta arriva alla Prefettura, in mancanza di posti disponibili tanto nello SPRAR quanto nei CARA, i richiedenti asilo vengono messi in una lista di attesa e rimangono, in alcune città, per settimane e anche mesi senza alcun tipo di assistenza. Infine le Prefetture non rilasciano nessun contributo economico a differenza di quello che prevede la legge. “E’ evidente che il sistema di accoglienza italiano è al collasso, non ha più posto per inserire richiedenti asilo e sono molti anche i rifugiati che si trovano esclusi. Se non ci sono posti d’accoglienza, almeno che le Prefetture riconoscano loro, come previsto dalla legge, il contributo economico. Stiamo assistendo a una sistematica violazione della normativa e dei diritti previsti in Italia e in Europa.” dichiara Christopher Hein.

Il CIR chiede che sia garantito a tutti i richiedenti asilo che arrivano in Italia il sicuro accesso a forme materiali di accoglienza a partire dalla presentazione della domanda d’asilo. Che sia certo il passaggio per tutti i richiedenti asilo dalla prima accoglienza fornita nei centri governativi, che deve rispettare il limite temporale previsto dalla legge pari a un massimo di 35 giorni, a una seconda accoglienza erogata all’interno del sistema SPRAR. E’ evidente che lo SPRAR deve essere fortemente potenziato in termini di capacità ricettiva. E che il diritto all’accoglienza verso l’integrazione dovrà essere garantito per un periodo minimo di un anno dal riconoscimento della protezione, periodo durante il quale la persona dovrebbe avere accesso a un Programma nazionale per l’integrazione lavorativa, alloggiativa, sociale e culturale.

“Questi sono impegni che un Paese come l’Italia deve finalmente prendere e portare a termine. Siamo in un forte ritardo. Non si tratta di investimenti economici aggiuntivi, si tratta, semplicemente, di utilizzare in modo differente i fondi comunitari e nazionali che sono a disposizione. Invece di lavorare sempre sull’emergenza deve essere potenziato un sistema di accoglienza che possa far fronte in modo ordinario all’arrivo di richiedenti asilo e rifugiati e che  li possa accompagnare verso l’integrazione attraverso percorsi strutturati. Non possiamo ogni volta trovarci impreparati e stupirci che arrivano in Italia persone in cerca di protezione. Lo scorso anno sono state presentate secondo l’UNHCR 17.312 richieste d’asilo, un numero molto contenuto se comparato con altri stati europei, ma nonostante questo il sistema non ha funzionato. Ora con l’arrivo dell’estate e il sicuro e fisiologico incremento di sbarchi non vogliamo sentir parlare nuovamente di una emergenza. Se non strutturiamo un sistema in grado di rispondere a numeri di arrivi contenuti, siamo noi che creiamo emergenze continue” conclude Hein.

   
Ulteriori informazioni
UFFICIO STAMPA CIR  
Valeria Carlini
tel. + 39 06 69200114 int. 216 
+39 335 17 58 435
E-mail: carlini@cir-onlus.org  
Sito www.cir-onlus.org   

mercoledì 19 giugno 2013

63 migrants left to die in the Mediterranean : Survivors continue their quest for justice

Today, two survivors of the drama that caused the death of 63 migrants in the Mediterranean Sea in April 2011, filed complaints before the Tribunal de grande instance in Paris and the Audiencia Nacional in Madrid, holding the French and Spanish military to account for failing to assist persons in danger. In France, GISTI, FIDH, LDH and Migreurop, joined the case as civil parties.
Following the decision of the Paris Prosecutor’s Office to take no action on an initial complaint lodged by survivors in April 2012, today’s proceedings in France and Spain, filed as civil parties, will force the opening of judicial investigations.

The complaints allege that both country’s military forces received distress signals from the migrants’ boat and failed to respond, violating the obligation to assist persons in danger. Nothing can justify leaving 72 people to drift at sea for 15 days, despite registering their calls for help and direct contact with an airplane, helicopters and military vessels.

An investigation by the Parliamentary Assembly of the Council of Europe, published in April 2012, concluded that numerous opportunities to rescue those on board were lost and that the flag States of vessels close to the boat violated their obligation to rescue people in distress (see report “Lives lost in the Mediterranean Sea: Who is responsible?”). In a recent judgement concerning Italy’s treatment of migrants trying to reach Europe by sea, the European Court for Human Rights qualified the indifference shown towards such people as intolerable and affirmed that the Mediterranean Sea is not a legal vacuum.

The case also calls into question the responsibility of British, Italian, Canadian and Belgian military forces present in the area. The survivors have already lodged a complaint in Italy and another will soon be filed in Belgium. Furthermore, following unsatisfactory responses from the U.K. and Canada, where victims are unable to launch proceedings themselves, requests for information have been submitted, in order to obtain details on the precise positions and actions of their armed forces at the time of these events.

The facts: 

In March 2011, during the Libyan conflict, 72 migrants embarked on a dinghy bound for Italy. They soon lost control of their boat and launched a call for help. Their appeal was received by the Italian coast guards, who transmitted it to the NATO coordination centre and to military vessels present in the area, providing the position of the boat. The distress calls were repeated every 4 hours for 10 days. But no-one came to their assistance. The dinghy was seen by an airplane, military helicopters, two fishing vessels and a large military vessel, which ignored their distress signals. After 15 days adrift, the boat washed up on the Libyan coast with only 11 survivors on board, two of whom died shortly afterwards.

63 people, including 20 women and 3 children died (See Press Statement, “Death of 63 migrants in the Mediterranean: Complaint in France holds the French military to account” and the Forensic Oceanography report).

In the course of 2011, marked by crises in North Africa, it is estimated that over 2000 people died or disappeared in the Mediterranean, despite the massive presence of military vessels with sophisticated equipment in the waters off the coast of Libya. This complaint underlines the unconditional obligation to provide assistance at sea incumbent on all parties present.

*The NGO Coalition supporting the survivors is composed of the following organisations: The Aire Centre, Agenzia Habeshia, Associazione Ricreativa e Culturale Italiana (ARCI), Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Boats4People, Canadian Centre for International Justice, Coordination et initiatives pour réfugiés et immigrés (Ciré), Fédération internationale des ligues des droits de l’Homme (FIDH), Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI), Ligue belge des droits de l’Homme (LDH), Ligue française des droits de l’Homme (LDH), Migreurop, Progress Lawyers Network, Réseau euro-méditerranéen des droits de l’Homme (REMDH), Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani (UFTDU).

Addendum to the "Report on the Left to die Boat"



Download the addendum to the "Report on the Left to die Boat"

Israele, espulsioni di massa contro gli immigrati africani

di Emilio Drudi
Tel Aviv. Primo pomeriggio. Un giardinetto poco lontano da Allenby street, al margine di un vecchio quartiere di stradine e casette basse che risale alla prima metà del 1900 e oggi circondato da brutte costruzioni cadenti degli anni 70 e dai nuovi grattacieli. Su una panchina appartata siede assopito un giovane africano. Dall’aspetto si direbbe eritreo o etiope. Occhi socchiusi, la testa reclinata sul petto. Sembra abbandonarsi su se stesso. Ogni tanto sussulta, come svegliandosi di colpo. Alla fine si distende. A metà della panca c’è un bracciolo, un basso cerchio di ferro messo lì proprio per impedire che venga usata come giaciglio, ma quel ragazzo ha un corpo così esile che entra bene in quel pochissimo spazio. Dorme col viso nella penombra per una ventina di minuti. Poi, sfilando il busto e le gambe dall’anello metallico in cui li ha infilati, si alza stancamente, afferra con una mano un sacco arancione semitrasparente, mezzo pieno di bottiglie e lattine, e fa il giro dei cestini portarifiuti, recuperando qualche altra bottiglia. Non si lascia avvicinare: risponde a monosillabi e fa capire, più a gesti che a parole, che vuole essere lasciato in pace. Un minuto dopo si allontana, camminando a piedi nudi, le unghie nere e screpolate, sotto un paio di jeans sporchi e sdruciti e una maglietta nera, slabbrata da tutte le parti. Non deve avere più di vent’anni.
Meno di un chilometro più avanti, dove l’elegante, animatissimo lungomare si apre in un vasto giardino molto ben curato, prima di piegare verso l’antico borgo di Giaffa, altri due giovani africani siedono nella striscia d’ombra di un’aiuola dall’erba appena rasata. Discutono fitto con un anziano barbone bianco. Ciascuno dei due ha accanto un sacco arancione con contenitori di plastica e qualche bottiglia di birra vuota. Sono entrambi sui 25-30 anni, sicuramente molti di meno del clochard che è con loro. Sembrano più disponibili. Accettano di scambiare qualche parola. Uno dice di chiamarsi Joseph, l’altro Mike. Vengono dal Sudan. Ma non aggiungono altro. Appena si comincia a chiedere come siano arrivati in Israele, dove abitano, come vivono, si fanno subito diffidenti: salutano con un sorriso, facendo capire che il colloquio è finito, e si allontanano caricandosi su una spalla il loro sacco. Il barbone li segue a distanza. Non si voltano nemmeno.
Due ore più tardi, dalla parte opposta del lungomare, verso il porticciolo turistico, un altro giovane avanza a passi lenti sul viale invaso da ragazzi che vanno o vengono dalla spiaggia, uomini e donne che fanno jogging o si riposano sulle panchine, godendosi la brezza di maestrale. Cammina con un paio di scarpe da ginnastica che stentano a stare insieme. Veste jeans con un lungo strappo verticale sulla gamba sinistra: inizia dalla tasca e arriva sotto il ginocchio. Uno strappo vero, non come quelli “artistici” dei jeans esposti nelle vetrine dei negozi di moda casual. Poi, una camicia scura che lascia intravedere una t-shirt nera e, sopra a tutto, un giaccone di finta pelle, del tutto fuori luogo con la temperatura che sfiora i 34 gradi ma che lui si porta addosso perché probabilmente quegli abiti sono tutto il suo guardaroba, insieme a un’altra t-shirt e a un po’ di biancheria che si intravedono in una busta annodata per i manici. Ha la pelle ebano come i due sudanesi di prima. Si ferma un attimo, ma non vuole parlare. Lo fa capire con un movimento eloquente della mano e biascicando un “I do’nt understand…”. Si porta dietro l’odore di chi vive nella miseria più dura.
Sono quattro dei circa 60 mila profughi o migranti irregolari africani approdati in Israele. La metà circa sono sudanesi. Tra gli altri prevalgono gli eritrei, poi i somali e gli etiopi. Sono arrivati attraverso il deserto del Sinai, eludendo la vigilanza della polizia di frontiera e sfidando le fucilate dei militari egiziani o, peggio, l’insidia dei trafficanti di schiavi che catturano questi disperati – uomini, donne, bambini – per chiederne il riscatto: 40 mila dollari a testa. Chi non ha amici o familiari in grado di pagare rischia di essere consegnato al mercato degli organi per i trapianti clandestini o, le ragazze, ai giri della prostituzione internazionale. La maggior parte è a Tel Aviv, poi ad Eilat, Gerusalemme, Hadera e Gadera. Abitano nei quartieri più modesti e periferici, in genere in piccoli appartamenti presi in affitto, anche 8-10 per stanza. Malvisti e mal sopportati dalla gente. In particolare dai vicini. Non sono mancati episodi di violenza. Incluso qualche assalto alle loro case, con pestaggi e “punizioni” collettive. Come giusto un anno fa a Gerusalemme, dove è stato incendiato l’appartamentino di tre eritrei, tutti e tre presi e picchiati duramente da un gruppo di “giustizieri”, sulla scia di un’accusa di stupro attribuita a giovani africani e poi rivelatasi senza fondamento.
La contestazione più ricorrente è che “rubano il lavoro” agli israeliani. In realtà vivono di quello che possono. Come, appunto, la raccolta di vetro e plastica da recuperare. Anche gli addetti alla nettezza urbana selezionano e mettono insieme questo materiale. Passano in genere verso sera. I migranti africani probabilmente ne hanno studiato gli orari e li precedono, in concorrenza con qualche barbone bianco. Deve esserci qualche organizzazione alla quale fanno capo: potrebbe confermarlo anche il fatto che quasi tutti usano per la raccolta gli stessi sacchi semitrasparenti di colore arancione. Forse qualcuno fa da intermediario tra questi “recuperanti” improvvisati e la compagnia incaricata del servizio. Sta di fatto che i due sudanesi del lungomare dopo un po’ hanno raggiunto un camion fermo in una strada laterale, accanto al cantiere di un palazzo in costruzione. Un operaio, con tanto di pettorina gialla per distinguersi nel traffico, stava caricando numerosi sacchi di bottiglie e lattine usate. Loro si sono fermati qualche istante, giusto il tempo di consegnare i loro sacchi, e poi via verso un altro vagare di cestino in cestino, per mettere insieme una manciata di shekel. Ma, a parte espedienti del genere, la maggior parte di questi giovani sono braccia a buon mercato per molti settori: bassa manovalanza in edilizia, nella ristorazione, nelle campagne. E alimentano – denunciano l’agenzia Habeshia o Hotline for Migrant Workers – un vasto giro di caporalato e di sfruttamento in nero del loro bisogno. E della loro vita.
Sono le norme stesse di accoglienza ad alimentare questo paradosso. I profughi, una volta in Israele, ricevono un visto di soggiorno provvisorio, in genere di tre mesi, ma a parte un alloggio temporaneo, non hanno diritto ad assistenza e lavoro. Quasi tutti inoltrano la richiesta di asilo, per essere tutelati come rifugiati politici, in base alla convenzione Onu, che Israele è stato tra i primi governi al mondo a firmare. Sono pochissimi, però, quelli che riescono a strappare questo riconoscimento. Quanto ai migranti clandestini sfuggiti ai controlli dell’esercito lungo la frontiera, sono abbandonati a se stessi. E anche quelli regolari vivono sempre nell’incertezza. Il loro permesso di soggiorno è legato strettamente al lavoro: se lo perdono rischiano l’espulsione entro breve tempo. Sui documenti di ogni badante, ad esempio, è riportato il nome della persona assistita che fa come da garante ed è, di fatto, il vero titolare del permesso. Se l’anziano o il malato vengono a mancare, viene meno anche la “garanzia” e si può finire di colpo nella lista degli illegali.
La situazione non è mai stata facile, ma nell’ultimo anno è diventata per moltissimi addirittura drammatica. Giusto dodici mesi fa, il 3 giugno 2012, è entrata in vigore una legge che consente di chiudere in campi di internamento per un periodo fino a 3 anni, senza processo, gli immigrati irregolari. Anzi, può essere condannato a pesanti pene detentive – come ha scritto in una bella inchiesta giornalistica Dana Weiler-Polak per il quotidiano Haaretz – anche chi “aiuti i migranti o fornisca loro un rifugio”: si va dai 5 ai 15 anni di carcere. Una mazzata per quanti, arrivati dal confine egiziano, contavano sull’assistenza di parenti e amici già residenti in Israele. Sono state inoltre inasprite le pene per reati minori attribuiti dalla “voce comune” ai migranti, magari furtarelli come la sottrazione di una bicicletta. “Infrazioni – afferma Dana Weiler-Polak – per le quali in precedenza non sarebbero stati detenuti”.
I migranti arrestati dai militari lungo il confine del Sinai sono stati sempre accompagnati al centro di detenzione di Saharonim, nel Negev, capace di 2.000 posti. Quasi in concomitanza con la nuova legge, l’estate scorsa, il complesso è stato più che raddoppiato, tanto da poter ospitare ora 5.400 persone. L’internamento è l’anticamera dell’espulsione verso i paesi d’origine. Si è cominciato con i sudanesi. In particolare quelli originari del nuovo stato del Sud Sudan, istituito con capitale Giuba nel luglio del 2011. Israele ha sempre sostenuto, in funzione anti islamica, i gruppi rivoluzionari, di religione cristiana, che hanno portato alla scissione. Per questo molti, prima dell’indipendenza, hanno chiesto rifugio a Tel Aviv. Ma ora il governo israeliano ritiene che siano venute meno le condizioni per ospitarli ed ha cominciato ad ordinarne il trasferimento in massa. Senza tener conto che in realtà la situazione nel Sud Sudan è tutt’altro che pacificata: la regione è tormentata ancora da scontri, combattimenti, incursioni di bande di miliziani, persecuzioni, rapimenti. Con migliaia di sfollati che vagano senza pace. E l’impressione è che, subito dopo i sudanesi meridionali, la stessa sorte toccherà agli eritrei. Anche a questi profughi, infatti, non è permesso chiedere asilo, probabilmente sempre a causa di interessi di politica internazionale, nonostante ad Asmara continui la dittatura spietata di Isaias Afewerki.
Contro questo regime duro è esplosa la protesta delle organizzazioni umanitarie, che contestano sia la nuova legge che il sistema di detenzione. “Invece di comportarsi come tutti i paesi civili – ha dichiarato Hotline for Migrants Workers a Dana Weiler-Polak – e di verificare le richieste di asilo, garantendo lo status di rifugiato a chi ne ha diritto, cosa che Israele è obbligata a fare in base alla convenzione dell’Onu, lo Stato considera la carcerazione di massa di migliaia di persone, donne e bambini la cui sola colpa è stata il cercare di fuggire da regimi sanguinari, come la soluzione del problema. Questa soluzione non risolverà nulla, poiché non è né umana né efficace”. Il governo, tuttavia, non demorde. Le autorità carcerarie garantiscono di essere in grado “di inserire nelle proprie strutture tanti immigrati illegali quanti ne arrivano”. In verità ne arrivano sempre di meno e il problema riguarda semmai i clandestini già presenti nel Paese. Il che spiegherebbe perché questi giovani siano così diffidenti e non si lascino avvicinare facilmente da nessuno. Il flusso, arrivato in passato a registrare fino a 2.000 ingressi al mese, è rallentato e poi si è di fatto quasi interrotto da quando è stata completata la grande barriera al confine del Sinai: un muro di filo spinato pressoché invalicabile, lungo centinaia di chilometri, che completa la politica dei respingimenti nel deserto applicata negli ultimi tempi nei confronti dei fuggiaschi, disperati giunti fortunosamente in vista di quella che credevano la salvezza, dopo un viaggio denso di mille pericoli, pagato migliaia di dollari a guide e “passatori” pronti a tradirli e ad abbandonarli al minimo pericolo.
La linea autoritaria ha il pieno sostegno dell’attuale ministro degli esteri Eli Yishai, già alla guida del dicastero degli interni fino al marzo scorso, che un anno fa, intervistato dal quotidiano Maariv, ha dichiarato: “Useremo tutti gli strumenti per espellere gli stranieri, fino a quando non rimarrà alcun infiltrato”. Aggiungendo, secondo vari organi di stampa: “I musulmani che arrivano qui non pensano neppure che questo paese appartiene a noi, all'uomo bianco”.

La maggior parte della gente non condivide una posizione così oltranzista. Ma in genere giustifica la politica delle espulsioni sostenendo che Israele è troppo piccolo per essere in grado di sostenere un flusso intenso di emigrazione dall'Africa o da altri paesi. Solo che, di contro, le porte restano aperte all'emigrazione di ebrei di tutto il mondo. Anzi, questo genere di arrivi è favorito e sostenuto. La differenza, allora, sembra essere solo tra l’essere o no ebrei. E’ questo il vero nodo. Che stringe il cuore di chiunque, anche non israeliano né ebreo, ami davvero Israele e quello che la sua nascita nel maggio del 1948, sessantacinque anni fa, ha significato per il mondo intero. 

IL NUMERO DI RIFUGIATI E SFOLLATI NEL MONDO AI LIVELLI PIU' ALTI DA 18 ANNI In Italia domande di asilo dimezzate nel 2012

Comunicato stampa
 
19 giugno 2013
 
IL NUMERO DI RIFUGIATI E SFOLLATI NEL MONDO AI LIVELLI PIU' ALTI DA 18 ANNI
In Italia domande di asilo dimezzate nel 2012

 
Nel 2012 il numero di rifugiati e sfollati interni ha raggiunto i livelli più alti degli ultimi 18 anni. È quanto emerge dall'ultimo rapporto annuale Global Trends - sulle tendenze a livello globale in materia di spostamenti forzati di popolazione - pubblicato oggi dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
 
Lo studio prende in esame le migrazioni forzate avvenute durante il 2012 basandosi su dati prodotti da governi, organizzazioni non governative partner e dalla stessa Agenzia ONU. Mentre alla fine del 2011 – si legge nel rapporto – le persone coinvolte in tali situazioni nel mondo erano 42,5 milioni, un anno dopo erano ben 45,1 milioni. Di queste 15,4 milioni erano i rifugiati, 937mila i richiedenti asilo e 28,8 milioni gli sfollati, persone cioè costrette ad abbandonare le proprie abitazioni ma che sono rimaste all'interno del proprio paese.
 
Le guerre restano la principale causa alla base della fuga. Il 55% di tutti i rifugiati presi in esame dal rapporto proviene infatti da appena 5 paesi colpiti da conflitti: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria e Sudan. Importanti nuovi flussi si registrano anche in uscita da Mali, Repubblica Democratica del Congo e dallo stesso Sudan verso Sud Sudan ed Etiopia.
 
“Sono numeri allarmanti” ha affermato l'Alto Commissario ONU per i Rifugiati António Guterres. “Indicano non solo una sofferenza individuale su vasta scala, ma anche le difficoltà della comunità internazionale nel prevenire i conflitti e nel promuovere soluzioni tempestive per una loro ricomposizione”.
 
Le tendenze che emergono dal rapporto sono preoccupanti sotto diversi aspetti; uno di questi è la rapidità con la quale le persone sono costrette a spostamenti forzati. Durante il 2012, 7,6 milioni di persone sono state costrette alla fuga, delle quali 1,1 milioni hanno cercato rifugio all'estero e 6,5 milioni sono rimaste sfollate all'interno del proprio paese. Ciò consente di affermare che ogni 4,1 secondi una persona nel mondo diventa rifugiato o sfollato.
 
Emerge poi come il gap tra i paesi più ricchi e quelli più poveri si faccia più ampio quando si tratta di accogliere rifugiati. La metà dei 10,5 milioni di rifugiati che rientrano nel mandato dell'UNHCR (altri 4,9 milioni sono rifugiati palestinesi che ricadono invece nella competenza dell'UNRWA, l'Agenzia ONU che si occupa specificamente di tale popolazione) trova infatti accoglienza in paesi che hanno un reddito pro capite annuo inferiore a 5mila dollari USA. Complessivamente i paesi in via di sviluppo ospitano l'81% dei rifugiati di tutto il mondo, un netto aumento rispetto al 70% di un decennio fa.
 
I minori – bambini e adolescenti con meno di 18 anni – costituiscono il 46% di tutti i rifugiati. Lo scorso anno poi la cifra record di 21.300 domande d'asilo è stata presentata da minori non accompagnati o separati dai loro genitori,  si tratta del numero più alto mai registrato dall'UNHCR.
 
La cifra complessiva relativa alle persone vittime di migrazioni forzate è calcolata  sommando il numero di nuove persone in fuga alle situazioni esistenti non risolte e sottraendo il numero di persone che hanno potuto trovare una soluzione permanente, come ad esempio le persone che rientrano nelle proprie case o coloro cui viene consentito di stabilirsi permanentemente fuori del proprio paese d'origine attraverso il riconoscimento della cittadinanza o altre soluzioni. L'UNHCR è impegnato ad aiutare coloro che sono stati costretti alla fuga, sia fornendo loro assistenza materiale immediata e sia perseguendo soluzioni durevoli alla loro condizione. Il 2012 d'altra parte ha segnato la fine della condizione di rifugiato e sfollato per rispettivamente 526mila e 2,1 milioni di persone . Tra coloro per i quali sono state individuate soluzioni, 74.800 sono le persone che l'UNHCR ha identificato per i programmi di reinsediamento in paesi terzi.
 
Nel 2012 – si legge ancora nel rapporto - il cambiamento rispetto all'anno precedente nella graduatoria dei paesi che accolgono il più alto numero di rifugiati è stato invece lieve: il Pakistan si è confermato al primo posto con 1,6 milioni, seguito da Iran (868.200) e Germania (589.700).
 
L'Afghanistan si è confermato in testa alla classifica dei paesi d'origine del maggior numero di rifugiati, un triste primato che detiene da ben 32 anni: in media nel mondo un rifugiato su 4 è afghano e il 95% di loro si trova in Pakistan o in Iran. La Somalia – teatro di un altro conflitto di lunga data – è stato nel 2012 il secondo paese per numero di persone fuggite, sebbene il ritmo del flusso sia rallentato. I rifugiati iracheni erano il terzo gruppo nazionale (746.700), seguiti dai siriani (471.400).
 
Per ciò che riguarda gli sfollati interni, la cifra di 28,8 milioni alla fine del 2012 è la più alta da oltre vent'anni a questa parte. L'UNHCR assiste 17,7 milioni di loro, poiché l'assistenza dell'Agenzia agli sfollati non avviene in maniera automatica ma solo su richiesta dei governi interessati. Significativi nuovi flussi di sfollati interni sono stati registrati nella Repubblica Democratica del Congo e Siria.
 
In Italia nel 2012 sono state presentante 17,352  domande d’asilo, circa la metà dell’anno precedente. Questo calo significativo, determinato prevalentemente dalla fine della fase più drammatica delle violenze in Nord Africa, riporta il numero di domande in media con il dato degli ultimi dieci anni. I rifugiati in Italia alla fine del 2012 erano 64.779, questa cifra colloca l’Italia al 6° posto tra i Paesi europei, dopo Germania (589,737), Francia (217,865), Regno Unito (149,765), Svezia (92,872), e Olanda (74,598).
 
Il rapporto Global Trends dell’UNHCR è il principale rapporto statistico sullo stato delle migrazioni forzate nel mondo. Dati aggiuntivi vengono pubblicati nel nostro Annuario Statistico e nel rapporto L’Asilo nei Paesi Industrializzati. Il nuovo rapporto Global Trends ed i relativi materiali multimediali possono essere scaricati al seguente link http://www.unhcr.org/globaltrendsjune2013/
 

Per ulteriori informazioni:
 
A Ginevra
Adrian Edwards edwards@unhcr.org
In Italia
Federico Fossi fossi@unhcr.org
Ufficio stampa - 06 80212318/33 - 331 6355517
Twitter 
UNHCRItalia

domenica 9 giugno 2013

Fr. Zerai accusation: "In Libya, a lager with the insignia of Europe"


Emilio Drudi

"There is a lager Burshada, Libya, with the license plate of the European Union and the IOM, the Intergovernmental Organisation for Migration. In the general indifference. Of the government in Tripoli as the European registries. " And 'yet another accusation of Don Mussie Zerai, agency spokesman Habeshia. A serious charge, but the Eritrean priest for years at the forefront of the defense of the rights of refugees and migrants, says he is ready to confirm it in front of anyone and in any location, political or judicial either. Quoting witnesses, reports and presenting a series of impressive photos. The same documentation, with equally horrifying images, is available for the other two camps: Bursan and Sabha.
A Burshada, about 150 kilometers from Tripoli, there is a large group of prisoners from Eritrea: 54 young people fled from persecutions and wars of the dictator Isaias Afewerki but intercepted by militia or police shortly after crossing the Libyan border, in middle of the Sahara, while trying to head north towards the coast. Further north they got there, but in chains. Now they live crammed into a shed on which - as told in a series of phone calls made eluding the military guard - displayed the insignia of the European Community and the IOM, the most important international institution for refugees, founded in 1951 and today counts 149 member states and 12 observers, with 460 offices throughout the world and nearly 6,700 workers.
"Those desperate people who have been able to contact me, exposing themselves to huge risks of retaliation, to beatings and worse - says Father Zerai - I have reported that almost certainly find themselves in a structure built with European funds. Otherwise we could not explain the signs posted at the entrance. E 'is quite evident that neither the European Commission nor the IOM are directly responsible for the ill-treatment suffered by inmates daily. Indeed, it certainly will not even know about it directly. But these complaints should open the eyes: that is, inducing the European Union and the IOM to review their assistance policy, demanding precise guarantees on how their contributions are invested in Libya and how they are managed centers who bring their insignia. As, apparently, even Burshada. "
The situation described by phone to Burshada, in effect, is Dantesque. The 54 Eritrean detainees, all of the Christian faith, they told don Zerai to be forced to live crowded into a small space, every day at the mercy of militiamen drunk or high, firing wildly or have fun throwing stones in the pile, like a shooting gallery. A nightmare also narrated by eloquent photographs "stolen" with a cellphone and made smuggled to Habeshia. "European contributions - don Zerai complaint - are perhaps used to build camps where torture prisoners? If, as everything seems to confirm the complaints of these 54 young people have a foundation, then the question is what constitutes and if you really thought about the 'value' of cooperation between the European Union and Libya to fight 'illegal emigration. "
Is no doubt that buying even greater force in the light of the horrific reports coming from the field of Surman, also in the north of the country, where they are retained over a hundred women: 95 Eritrean, Ethiopian and other 10 10 originating in various West African countries. A dozen are pregnant. Some eighth or even the ninth month. They are the ones who suffer the most. "None of them - have told Habeshia - has never seen a doctor since I was in Libya. There is no support nor preventive controls. " It is to believe that the birth will take place in the hellish conditions of the camp, where the sanitation situation is appalling and there is a suffocating crowds. The only help can come from companions. Everyone is terrified. For themselves and for the fate that awaits their young. Not to mention the inmates sick. More and more, given the ill-treatment and living conditions in the field. Malate also serious: heart, womb, of asthma. And, all of them, "sick of lager": between harassment, beatings, torture, lack of food and even water to drink, make it increasingly difficult to survive. With these young people already collapsing there are also a dozen very young children: the oldest is only five years old, the youngest just seven months. Children who are stolen every day in childhood, forced to live as prisoners along with their mothers.
Finally, Sabha, one of the larger fields of Libya, in the south-central region. According to the latest reports, there are over 1,300 prisoners crammed in tight spaces, a condition quite similar to that illustrated by the images made from smuggled out Burshada. Torture, beatings, hunger, thirst are the daily life behind bars for men, women and children. No hope that things can improve. Do not short, however: the police are the absolute masters of the field. Without controls.
"It 's like a dark tunnel with no end - protested Don Zerai - If people in need of international protection were also held in a concentration camp in which the plates are visible EU and IOM, which organizations should represent salvation and acceptance, we must wonder who has to protect the refugees and IDPs. Then I can not launch two appeals to Europe. The first, and most immediate, is to review its relations with Libya, to demand respect for human rights and put an end to the suffering and discrimination faced by the migrants of the Christian religion and those of sub-Saharan origin. Should be reviewed immediately, in short, the entire policy on the control of migration, beginning with the disastrous bilateral pacts between Tripoli and other European registries. Included, in particular, Italy. Then, a request for a more general character, to try to solve the root problem: should be fought the reasons why so many men and women of East Africa to leave their homeland to seek a better future, a place where we can live free and in peace. What is needed, therefore, a serious struggle against hunger and famine, wars and dictatorships. The European Union has the opportunity and the means to go down this path of revolution. The political will. But denouncing alliances and collaboration with certain regimes, today justified by economic interests, it is the only way to avoid becoming complicit in crimes of ill-treatment made inhuman prisons where detainees are beaten up and killed, trafficking of slaves managed often by men in uniform, as well as by marauding outlaws. "
On June 20, we celebrate the World Day of refugees. In light of the complaints that, like this, for years continue to come from the agency Habeshia but also of many other human rights organizations and aid to refugees - as Everyone, Human Rights Watch, the Committee on Eritrean immigrants in Britain, the Israeli Hotline for Migrant Workers, Physicians for Human Rights Israel, the Eritrean Movement for Democracy, America Team for the displaced Eritreans - there is a need to make a change at this annual event reflection and solidarity. Don Zerai not hide his bitterness: "Aided by the economic crisis, but also social and moral, there was a sharp decline of human rights in the whole of Europe, where advancing more and more policies are less inclined to welcome and prone to closure more selfish, to protect the privileges of a few. In some cases, choices are made openly xenophobic. It exudes a strong sense of insecurity, often spread to art amplifying enormously news stories that involve immigrants and even inventing a nonexistent crime such as the 'underground'. Almost always for electoral gain. Now even Switzerland, traditionally more open to migration, is preparing to celebrate a referendum asked by those who want to change the laws on asylum, with the aim of closing the doors in the face of thousands of refugees. Europe as a whole prefers to finance countries like Libya, delivering the prisons of Tripoli, thousands of desperate people fleeing Eritrea, Somalia, Ethiopia, Sudan. The Day of refugees can become an opportunity for a different signal: to ask all together to reverse the European Union and the governments of the Member States. There is nothing to celebrate. Rather to protest and denounce. If it will not, this event will remain an empty shell. That does not make sense to replicate. And indeed that is likely to become an alibi. "

Don Zerai accusa: “In Libia un lager con le insegne dell’Europa”

di Emilio Drudi

“C’è un lager a Burshada, in Libia, con la targa dell’Unione Europea e dell’Oim, l’Organizzazione intergovernativa per l’emigrazione. Nell’indifferenza generale. Del governo di Tripoli come delle cancellerie europee”. E’ l’ennesima accusa di don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. Un’accusa pesante, ma il sacerdote eritreo, da anni in prima linea per la difesa dei diritti dei profughi e dei migranti, si dice pronto a confermarla di fronte a chiunque e in qualsiasi sede, politica o giudiziaria che sia. Citando testimonianze, segnalazioni e presentando una serie di foto impressionanti. La stessa documentazione, con immagini altrettanto agghiaccianti, è disponibile per altri due lager: Bursan e Sabha.
A Burshada, a circa 150 chilometri da Tripoli, c’è un folto gruppo di prigionieri di origine eritrea: 54 giovani fuggiti dalle persecuzioni e dalle guerre del dittatore Isaias Afewerki ma intercettati dai miliziani o dalla polizia poco dopo aver varcato il confine libico, in pieno Sahara, mentre tentavano di puntare a nord, verso la costa. Più a nord ci sono arrivati, ma in catene. Ora vivono ammassati in un capannone sul quale – secondo quanto hanno raccontato in una serie di telefonate fatte eludendo la sorveglianza dei militari di guardia – compaiono le insegne della Comunità Europea e dell’Oim, la più importante istituzione internazionale per i rifugiati che, fondata nel 1951, oggi conta 149 stati membri e 12 osservatori, con 460 uffici sparsi nel mondo e quasi 6.700 operatori. 

“Quei disperati che sono riusciti a contattarmi, esponendosi a rischi enormi di ritorsioni, a pestaggi e anche peggio – racconta don Zerai – mi hanno segnalato che quasi certamente si trovano in una struttura costruita con fondi europei. Altrimenti non si spiegherebbero i cartelli affissi all’ingresso. E’ di tutta evidenza che né la Commissione europea né l’Oim sono direttamente responsabili dei maltrattamenti quotidiani che subiscono i detenuti. Anzi, certamente non ne saranno neanche al corrente in modo diretto. Ma queste denunce dovrebbero far aprire gli occhi: indurre cioè l’Unione Europea e l’Oim a rivedere la loro politica di assistenza, pretendendo precise garanzie su come vengono investiti i loro contributi alla Libia e su come sono gestiti i centri che portano le loro insegne. Come, a quanto pare, anche Burshada”.
La situazione descritta per telefono a Burshada, in effetti, è da girone dantesco. I 54 eritrei detenuti, tutti di fede cristiana, hanno raccontato a don Zerai di essere costretti a vivere ammucchiati in uno spazio ristrettissimo, ogni giorno alla mercé di miliziani ubriachi o drogati, che sparano all’impazzata o si divertono a scagliare pietre nel mucchio, come a un tiro a segno. Un incubo narrato anche da eloquenti fotografie “rubate” con un cellulare e fatte arrivare clandestinamente ad Habeshia. “I contributi europei – denuncia don Zerai – vengono forse impiegati per costruire lager dove torturare i prigionieri? Se, come tutto sembra confermare, le denunce di questi 54 giovani hanno un fondamento, c’è da chiedersi allora in che cosa consista e se si è riflettuto davvero sul ‘valore’ della cooperazione tra l’Unione Europea e la Libia per combattere l’emigrazione clandestina”. 

Sono dubbi che acquistano forza ancora maggiore alla luce dalle segnalazioni terribili che giungono dal campo di Surman, sempre nel nord del paese, dove sono trattenute oltre cento donne: 95 eritree, 10 etiopi e altre 10 originarie di vari paesi dell’Africa Occidentale. Una decina sono in stato di gravidanza. Alcune all’ottavo o addirittura al nono mese. Sono quelle che soffrono di più. “Nessuna di loro – hanno riferito ad Habeshia – ha mai visto un medico da quando sono in Libia. Non c’è assistenza né tanto meno controlli preventivi”. C’è da credere che il parto avverrà nelle condizioni infernali del lager, dove la situazione igienico-sanitaria è spaventosa e c’è un affollamento soffocante. L’unico aiuto può venire dalle compagne. Sono tutte terrorizzate. Per sé e per la sorte che attende i loro piccoli. Senza contare le detenute malate. Sempre più numerose, visti i maltrattamenti e le condizioni di vita nel campo. Malate anche gravi: di cuore, all’utero, di asma. E, tutte, “malate di lager”: tra soprusi, percosse, sevizie, carenza di cibo e persino di acqua da bere, fanno sempre più fatica a sopravvivere. Con queste giovani ormai allo stremo ci sono anche una quindicina di bambini in tenerissima età: il più grande ha solo cinque anni, il più piccolo appena sette mesi. Bambini ai quali viene rubata giorno per giorno l’infanzia, costretti a vivere da prigionieri insieme alle loro mamme.
Infine, Sabha, uno dei campi più grandi della Libia, nella regione centro-meridionale. Secondo le ultime segnalazioni, vi sono ammassati oltre 1.300 prigionieri, in spazi ristrettissimi: una condizione del tutto analoga a quella illustrata dalle immagini fatte uscire clandestinamente da Burshada. Torture, pestaggi, fame, sete sono la vita quotidiana dietro le sbarre per uomini, donne e bambini. Nessuna speranza che le cose possano migliorare. Non a breve, comunque: i poliziotti sono i padroni assoluti del campo. Senza controlli. 

“E’ come un tunnel nero senza fine – protesta don Zerai – Se persone bisognose di protezione internazionale sono tenute anche in un lager nel quale sono visibili le targhe dell’Unione Europea e dell’Oim, organismi che dovrebbero rappresentare salvezza e accoglienza, bisogna chiedersi chi deve tutelare i profughi e i rifugiati. Allora non posso non lanciare due appelli all’Europa. Il primo, il più immediato, è quello di rivedere i suoi rapporti con la Libia, per esigere il rispetto dei diritti umani e porre fine alle sofferenze e alle discriminazioni a cui sono sottoposti i migranti di religione cristiana e quelli di origine sub sahariana. Va rivista subito, insomma, tutta la politica sul controllo dell’emigrazione, a cominciare dai disastrosi patti bilaterali fra Tripoli e diverse cancellerie europee. Inclusa, in particolare, l’Italia. Poi, una richiesta di carattere più generale, per cercare di risolvere il problema alla radice: vanno combattuti i motivi che spingono tanti uomini e donne dell’Africa Orientale a lasciare la loro terra per cercare un futuro migliore, un posto dove poter vivere liberi e in pace. Serve, per questo, una seria lotta contro la fame e la carestia, le guerre e le dittature. L’Unione Europea ha la possibilità e i mezzi per imboccare questa via rivoluzionaria. Manca la volontà politica. Ma denunciare le alleanze e la collaborazione con certi regimi, oggi giustificate da interessi economici, è l’unica via per non diventare complici di crimini fatti di maltrattamenti inumani, di carceri dove  i detenuti vengono massacrati di botte e uccisi, di traffici di schiavi gestiti spesso da uomini in divisa, oltre che da predoni fuori legge”. 


Il 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale dei rifugiati. Alla luce delle denunce che, al pari di questa, da anni continuano ad arrivare da parte dell’agenzia Habeshia ma anche di numerose altre organizzazioni per i diritti umani e l’assistenza ai profughi – come Everyone, Human Rights Watch, la Commissione per gli emigrati eritrei in Gran Bretagna, l’israeliana Hotline for Migrant Workers, Physicians for Human Rights Israel, il Movimento eritreo per la democrazia, l’America Team per gli sfollati eritrei – si pone l’esigenza di dare una svolta a questo appuntamento annuale di riflessione e solidarietà. Don Zerai non nasconde la sua amarezza: “Complice la crisi economica, ma anche sociale e morale, si registra un forte regresso dei diritti umani in tutta l’Europa, dove avanzano sempre di più le politiche meno propense all’accoglienza e tendenti alla chiusura più egoistica, per tutelare i privilegi di pochi. In certi casi si sono fatte scelte apertamente xenofobe. Si respira un forte senso di insicurezza, spesso diffusa ad arte amplificando a dismisura le notizie di cronaca che vedono coinvolti gli extracomunitari e inventando addirittura un reato inesistente come quello di ‘clandestinità’. Quasi sempre per un tornaconto elettorale. Ora anche la Svizzera, tradizionalmente più aperta all’emigrazione, si appresta a celebrare un referendum chiesto da chi vuole modificare le leggi sul diritto di asilo, con l’obiettivo di chiudere le porte in faccia a migliaia di profughi. L’Europa nel suo insieme preferisce finanziare paesi come la Libia, consegnando alle carceri di Tripoli migliaia di disperati in fuga da Eritrea, Somalia, Etiopia, Sudan. La Giornata dei rifugiati può diventare l’occasione per un segnale diverso: per chiedere tutti insieme di invertire la rotta all’Unione Europea e ai governi dei vari Stati membri. Non c’è nulla da celebrare. Piuttosto da protestare e denunciare. Se non sarà così, questo appuntamento resterà un involucro vuoto. Che non avrà senso replicare. E che rischia anzi di diventare un alibi”.