lunedì 13 maggio 2013

Cittadinanza ai figli di stranieri: per l’Italia un dovere che viene da lontano


di Emilio Drudi

L’unica vera novità del governo Pd-Pdl guidato da Enrico Letta è stata la scelta di nominare ministro dell’integrazione Cecilie Kyenge, medico di origine congolese residente da anni in provincia di Modena, una donna simbolo per milioni di immigrati. E lei ha saputo subito interpretare tutta la voglia e la possibilità di cambiamento che attraversa il Paese con la proposta di approvare al più presto una legge che garantisca la cittadinanza italiana ai figli di coppie straniere nati o cresciuti in Italia. In sostanza, la cancellazione dello jus sanguinis di sapore razzista e l’introduzione dello jus soli, già in vigore in tutte le nazioni più avanzate.
E’ un tema caldo e le reazioni sono state immediate. Sia per la presenza in sé nel governo di Cecilie Kyenge, immigrata e per di più “nera”, sia, ancora di più, dopo che lei ha esplicitato il suo progetto di rendere anche “formalmente” italiani bambini e ragazzi che vivono da sempre tra noi, si sono formati tra noi, condividono i nostri problemi ed i nostri sogni. Reazioni non di rado scomposte e offensive. Tanto forti da soffocare o comunque oscurare il favore che pure non è mancato. In questo fuoco di fila xenofobo si è schierata in prima linea la Lega Nord, con diversi dei suoi esponenti di punta. Come Matteo Salvini, eurodeputato e leader del carroccio lombardo, il primo a reagire con l’annuncio di una “opposizione totale” alla nomina del neoministro e alle sue iniziative. Un “no” a prescindere, insomma. E questo è stato soltanto l’inizio. Forse anche sulla scia dei commenti razzisti inviati dalla base leghista a vari giornali, l’eurodeputato Mario Borghezio, noto per i trascorsi neofascisti peraltro mai nascosti e per le simpatie manifestate nei confronti dei movimenti internazionali più xenofobi, si è precipitato ad alzare il tono, definendo Cecilie Kyenge “ministro di un governo del bonga bonga che vuole imporre le sue tradizioni tribali”, con evidente disprezzo per le sue origini africane. Non sono stati da meno leghisti che passano per “equilibrati”. Come il presidente regionale del Veneto, Luca Zaia, il quale ha trovato il modo di contestare a Cecilie Kyenge di non essersi sentita in dovere, come ministro, di far visita a una ragazza austriaca stuprata a Vicenza, secondo l’accusa, da due giovani ghanesi. Quasi asserendo la necessità, da parte di un ministro donna, africana e “nera”, preposta all’integrazione, di farsi carico di una colpa di cui sono imputati due immigrati, africani e “neri” come lei. Come se la colpa fosse un fatto razziale e non individuale e comunque dando l’impressione di creare una sorta di pericolosa associazione tra immigrazione e atto delittuoso. Non risulta infatti che Zaia abbia mosso la stessa contestazione ad altri ministri in qualche modo interessati a quel drammatico episodio, a cominciare da quello agli interni, Angelino Alfano, segretario nazionale del Pdl.
Tutto questo solo per la nomina di Cecilie Kyenge a neoministro all’integrazione. Poi la spirale di ostilità si è allargata ancora di più quando lei, in linea perfetta con il suo incarico, ha chiesto di introdurre in Italia lo jus soli. Al punto che, mentre in Veneto comparivano anche scritte razziste nei suoi confronti e da più parti sono stati twittati persino messaggi di morte, il Pdl ha minacciato di ritirare la fiducia al governo e dunque di aprire la crisi se quella proposta non verrà ritirata. Particolarmente duro l’intervento del vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri il quale, a nome del Pdl, ha dichiarato: “Non accetto le intimidazioni di esponenti del Pd che tentano demagogiche speculazioni sulla pelle del prossimo. Lo jus soli, con l’automatica
concessione della cittadinanza a tutti coloro che nascono in Italia, non sarà mai legge della Repubblica Italiana”. Contro il ministro-immigrato e il suo progetto di riforma di grande significato civile e umano, insomma, in tutto lo schieramento di destra si è creato quasi un clima da crociata, con argomenti che richiamano temi razzisti e xenofobi, come il rischio di “contaminazione culturale” o la necessità di difendere “l’identità italiana ed europea”. Temi che negli ultimi anni sono peraltro tristemente echeggiati più volte anche in Parlamento e in decine, centinaia di consigli regionali e comunali.
Di fronte a questa offensiva, condita da battute tipo ministro “nero di seppia”, perla di un amministratore leghista toscano, la reazione della sinistra è stata piuttosto tiepida. Quasi sfuggente. L’unica presa di posizione decisa, ma isolata, è stata quella di alcuni parlamentari del Pd nei confronti del governatore Zaia e, di riflesso, sugli insulti di Borghezio. Sulla proposta di cittadinanza ai figli degli immigrati, però, non si è registrata alcuna mobilitazione concreta: né da parte del Pd, né del Consiglio dei ministri. Eppure questo progetto è stato uno dei punti guida del programma elettorale del centrosinistra, senza contare che oltre tutto, secondo i sondaggi, più del 70 per cento degli italiani sarebbe favorevole. Lo stesso premier, Enrico Letta, ha preferito defilarsi, evidentemente per non inimicarsi il Pdl. E’ emblematico, anzi, il suo comportamento. Dopo non aver avuto il coraggio di revocare tout court a Michaela Biancofiore, del Pdl, l’incarico di sottosegretario a causa delle sue dichiarazioni omofobe, limitandosi a spostarla dal dicastero delle pari opportunità a quello della funzione amministrativa, ha invitato tutti i membri del governo a “non esternare”. Chiaro il riferimento anche alle dichiarazioni fatte da Cecilie Kyenge. Quasi che parlare dell’integrazione di ragazzi ormai a tutti gli effetti italiani possa essere messo sullo stesso piano delle dichiarazioni a dir poco discutibili fatte contro gay e lesbiche proprio da parte di chi avrebbe dovuto promuoverne le “pari opportunità”.
Cecilie Kyenge ha reagito con grande compostezza e coraggio sia agli insulti e alle polemiche che alla “freddezza” del suo stesso governo, a partire da Letta, limitandosi a sottolineare di essere disposta ad ogni confronto e ad ascoltare tutte le voci, fermo restando che, come ministro e come donna, la sua stella polare resta la difesa dei diritti fondamentali di ogni cittadino e di ogni persona. Ne ha colto pienamente il messaggio don Mussie Zerai, il sacerdote eritreo, africano e “nero” come lei, che come presidente dell’agenzia Habeshia si batte in Italia e in Europa per i diritti dei rifugiati e dei migranti. “Trovo che sia una grave ingiustizia – ha detto – negare la cittadinanza ai figli degli immigrati residenti in Italia da anni. Uomini e donne che lavorano, pagano le tasse, garantiscono la pensione di milioni di italiani con i loro contributi previdenziali, assistono migliaia di anziani, vivono spesso in condizioni di autentico sfruttamento. I loro figli fanno parte del tessuto sociale di questo Paese: ne condividono le sorti nel bene e nel male. Negare tutto ciò non ha senso. Ed è assurdo restare vincolati a una legge basata sullo jus sanguinis. Peggio: dimostra il forte razzismo che ancora resiste in molti ambienti, anche istituzionali. Un retaggio delle leggi razziali fasciste che hanno prodotto disastri e sofferenze indicibili”.
Già, troppo spesso, quando si discute di questi problemi, si dimenticano le leggi razziali italiane, a cominciare da quelle introdotte nel 1936 nelle colonie africane e, in particolare, in Etiopia, Eritrea e Somalia, ancora prima delle leggi antiebraiche varate nel novembre del 1938. “Se vuole guardare al futuro – sostiene don Zerai – l’Italia deve tagliare ogni ponte con quel passato denso di dolore. Basti ricordare quanto è accaduto in Eritrea dove i figli nati da coppie miste, padri italiani e madri africane, non sono stati riconosciuti come italiani, proprio in nome della ‘purezza del sangue’ e della razza. E’ un problema che, da quei tempi bui, non è stato mai risolto completamente”.
Il riferimento è per la legge del 13 maggio 1940 che, nell’ambito della feroce apartheid già in vigore da quattro anni in tutto l’impero coloniale italiano, dettava norme speciali per i meticci, equiparandoli ai “sudditi negri”, al culmine di una serie di restrizioni crescenti e dopo una minuziosa campagna volta a dipingerli come “naturalmente predisposti all’ozio” e di “istinto antisociale”. La disposizione forse più crudele riguardava i mulatti nati da un padre italiano e da una madre eritrea, etiopica o somala, costringendoli ad assumere lo “status” del genitore africano e vietando al padre italiano di riconoscere e dare il proprio nome al figlio. Si trattava di numerosissimi bambini e ragazzi: nel 1935, solo in Eritrea erano oltre mille su 3.500 italiani residenti e in tutta l’Africa Orientale, secondo varie fonti storiche, fra il 1936 e il 1940 ne sarebbero nati circa 10 mila. La stragrande maggioranza erano frutto del cosiddetto “madamismo”, la convivenza tra un uomo bianco e una donna indigena, praticamente acquistata come una schiava. Per tutti loro non c’è stato scampo. La legge impose che fossero “ricacciati nel mondo negro” e assorbiti nella società africana, abolendo anche gli istituti, i collegi e i pensionati speciali istituiti in epoca liberale, prima del fascismo, per cercare di rendere meno penosa la loro condizione. La questione non è mai stata interamente affrontata e risolta neanche nel dopoguerra, dall’Italia repubblicana.
“Non sono più quei tempi – afferma don Zerai – E’ indicativo che il presidente Giorgio Napolitano abbia dichiarato una follia che i figli degli immigrati nati in Italia non siano cittadini italiani. Ma restano troppi problemi irrisolti. E’ ora di superarli e andare oltre. Di capire che è italiano chiunque nasca in Italia, ama questo paese, desidera e lavora per il bene di questo paese e di questo popolo. Non importa quali origini abbia: abbiamo tutti lo stesso sangue rosso dell’Umanità”.
Viene in mente, a sentire le parole di don Zerai, la storia di Tarik Naouck, il giovane operaio marocchino rimasto vittima del terremoto in Emilia, a Bondeno, nel tentativo di mettere al sicuro la fabbrica di polistirolo dove lavorava insieme a tanti compagni, italiani e immigrati come lui. Era di turno quando si è verificata la prima scossa, giusto un anno fa, ed è fuggito insieme agli altri operai. Poi però, una volta fuori, si è ricordato che nella concitazione del momento non era stata chiusa l’alimentazione a gas del forno di produzione ed è tornato indietro, temendo che potesse svilupparsi un incendio devastante. La seconda scossa lo ha sorpreso all’interno del capannone che stava cercando di salvare. E lo ha seppellito tra le macerie.
Sono ancora tanti in Italia quelli contrari a concedere la cittadinanza agli stranieri, appellandosi allo jus sanguinis. Tarik Naouck ha conquistato con il suo sangue il diritto alla cittadinanza italiana per sé, la sua famiglia e i suoi figli. Per tutti gli immigrati come lui e i loro figli.

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