lunedì 31 dicembre 2012

Palazzo dei disperati e richiedenti asilo: l’Italia calpesta la sua Costituzione


di Emilio Drudi
L’Herald Tribune ha fatto esplodere il caso del palazzo dei disperati alla Romanina, l’edificio già sede dell’università di Tor Vergata, lasciato in stato di abbandono e occupato dal 2006 da centinaia di profughi politici: giovani, uomini e donne, scappati in maggioranza dal Corno d’Africa, non di rado con i bambini, per sottrarsi a guerre e persecuzioni e che vivono da “non persone”, in una specie di villaggio fantasma, senza essere “visti” o ascoltati da nessuno. Eppure tutti sanno che sono lì, in condizioni indegne. Lo sa il Comune di Roma, lo sanno la Provincia, la Regione, la Prefettura, i carabinieri, la polizia e, quindi, il ministero dell’interno e il governo. Ma nessuno ha mai mosso un dito, riducendo tutto a una questione di ordine pubblico da seppellire sotto una spessa coltre di indifferenza e silenzio e dimenticando i doveri che lo Stato si è assunto nel momento stesso in cui ha accettato di accogliere quei disperati. Distratti e muti anche i maggiori giornali italiani, tanto che il caso, dopo il clamore iniziale seguito all’occupazione, sembrava chiuso. Anzi, inesistente. Non è riuscito a scuotere la sensibilità delle istituzioni italiane e della stampa nemmeno Nils Muiznieks, il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che all’inizio della scorsa estate ha inviato un rapporto di fuoco, dopo aver constatato di persona come sono costretti a vivere quegli uomini e quelle donne, abbandonati a se stessi dopo aver ottenuto lo status di rifugiati politici e richiedenti asilo. Nulla. Ancora silenzio profondo. Fino a che è arrivato il servizio pubblicato in prima pagina dall’Herald Tribune e lo scandalo ha assunto dimensioni internazionali. Costringendo Palazzo Chigi a dire qualcosa e, a cascata, tutte le altre istituzioni, fino al Campidoglio.
Il ministro degli interni Anna Maria Cancellieri – la stessa che in nome del governo ha firmato lo scorso aprile un nuovo accordo con Tripoli che, come quello sottoscritto in precedenza da Berlusconi e Gheddafi, affida il controllo dell’emigrazione nel Mediterraneo alla polizia e ai lager libici – ha finalmente scoperto il problema della Romanina, che si trascina dal 2006, ed ha promesso interventi d’emergenza, oltre che un futuro piano più vasto di “inclusione sociale”. Sembra ripetersi la vicenda dei 63 profughi, quasi tutti eritrei e somali, fuggiti dalla Libia tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 2011 e abbandonati a morire di sete e di stenti su un gommone in avaria, alla deriva per due settimane nel canale di Sicilia. Anche allora nessuno è intervenuto per quindici, lunghissimi giorni, né ha trovato qualcosa da ridire. Niente dal governo, niente dalla politica, niente dai media. Nonostante le denunce dell’agenzia Habeshia e di altre organizzazioni umanitarie. Fino a che del caso si è impossessato il Guardian di Londra, facendone uno scandalo internazionale che è costato all’Italia una condanna ufficiale del Consiglio d’Europa. Subito dopo la sentenza, il governo Monti si è impegnato a rispettarne le indicazioni, promettendo una maggiore apertura nei confronti di rifugiati e migranti. Ma non è cambiato pressoché nulla. Quasi contemporaneamente è stata aperta un’inchiesta, da parte della Procura militare, ma senza disturbare i “politici”: nel mirino ci sarebbero solo alcuni responsabili, a vario titolo, della Guardia Costiera. 

Né il caso della Romanina è isolato. Semmai è il simbolo più noto di una situazione drammatica tanto diffusa quanto sottaciuta. Nell’ex palazzo dell’università di Tor Vergata sono in 800, ma altre centinaia di profughi vivono abbandonati da tutti anche in un vecchio edificio occupato sulla via Collatina, a Roma. E, sempre a Roma, almeno altrettanti sono costretti ad abitare in baraccopoli lungo il Tevere e l’Aniene. La più grande è a Ponte Mammolo, un’autentica “discarica” di umanità sconfitta. Per non dire dei tantissimi che avevano trovato rifugio nella villa liberty sulla via Nomentana già sede del consolato di Somalia. Una “invasione” che si è protratta per anni, in condizioni di assoluta indigenza e insicurezza, in pratica senza servizi, con uno o due bagni al massimo, per tutti. Ma non se ne è mai parlato fino a quando non si è verificato un drammatico fatto di cronaca nera, lo stupro di una ragazza che aveva seguito un amico in quella “casa di disperati”, diventata a poco a poco una bomba pronta ad esplodere. Anche perché ai numerosi richiedenti asilo e rifugiati, che avevano promosso inizialmente l’occupazione, si erano aggiunti personaggi di ogni genere.
E poi i Centri di identificazione ed espulsione, i famigerati Cie, autentiche prigioni mascherate, dove gli “ospiti” perdono in pratica ogni diritto. E dove, ai tempi del governo Berlusconi, per volontà espressa del ministro degli interni leghista Roberto Maroni, era proibito entrare a tutti: giornalisti, organizzazioni umanitarie, medici e sanitari di associazioni di assistenza, amministratori locali. Ora il divieto è caduto e sia pure con mille cautele e non poca difficoltà i Cie sono “ispezionabili”. Ma la situazione interna non è cambiata granché. Non a caso vi esplodono periodicamente rivolte furiose.
C’è da chiedersi, dunque, quale immagine possa avere un paese che finge di accogliere migliaia di rifugiati l’anno e poi se ne dimentica, trasformandoli in “non persone”. La denuncia del Commissariato dell’Onu è eloquente. Nel 2011 le richieste di asilo presentate in Italia sono state più di 35 mila e più di un terzo, il 35 per cento, sono state accolte. Ma il Servizio nazionale di assistenza ha messo a disposizione solo 3 mila posti. Ovvero, soltanto uno su quattro è stato davvero “accolto”. Tutti gli altri, oltre novemila giovani, uomini e donne, sono stati abbandonati a se stessi, condannati a diventare i “fantasmi” di uno dei tanti villaggi della disperazione sorti nei palazzi di periferia abbandonati. E allora ritorna la domanda. Quale credibilità internazionale può pretendere l’Italia. E che tipo di paese è mai questo, che si esalta per lo spettacolo in televisione sulla “Costituzione più bella del mondo” spiegata da Roberto Benigni, ma si ostina a non applicarla. Tanto da dimenticarne uno dei passi più significativi e avanzati, il comma tre dell’articolo 10, che dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”.
Diritto d’asilo. Non l’elemosina pelosa di un rifugio clandestino in una baracca o in un edificio cadente e la condanna a una vita da reietti. “Invisibili”.

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