mercoledì 13 gennaio 2010

Italia, Malta e Frontex sotto accusa

Indaga la Procura di Agrigento Non sempre ci si pensa. Ma per ogni persona che attraversa il mare, c'è dietro una famiglia. E stavolta le famiglie chiedono giustizia. Vivono sparse in mezzo mondo. In Europa, ma anche in Africa, in Australia, negli Stati Uniti e in Canada. Sono i parenti e gli amici dei 77 eritrei morti nell'agosto 2009 al largo di Lampedusa, scomparsi uno dopo l'altro dopo tre settimane alla deriva senza ricevere soccorso. Hanno trasformato il loro lutto in indignazione e si sono organizzati per scrivere una lettera aperta al Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, inviata per conoscenza anche all'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, all'Organizzazione internazionale per le migrazioni e ai Ministeri dell'Interno maltese e italiano. Accusano l'Italia, Malta, Frontex e le navi civili che negarono il soccorso ai propri cari, e chiedono che venga aperta un'inchiesta a livello europeo. I familiari delle vittime hanno raccolto informazioni utili parlando sia con i cinque superstiti in Sicilia, sia con gli eritrei della diaspora in Libia e a Malta. Informazioni già depositate presso la Procura di Agrigento che indaga sui fatti e che potrebbero riaprire il caso. Le famiglie erano al corrente della partenza del gommone con i suoi 82 passeggeri, in gran parte eritrei, ma anche nigeriani e etiopi, il 28 luglio 2009 dalla Libia. La sorella di uno dei passeggeri, allertò subito alcune Ong tedesche per avere notizie. La prima e-mail risale al 31 luglio 2009, è diretta al Consiglio dei rifugiati di Bonn, in Germania, dove la signora eritrea vive da vent'anni. Suo fratello Abel era partito dalla Libia soltanto tre giorni prima, eppure lei già presagiva che quel viaggio avrebbe potuto trasformarsi in tragedia. Da Tripoli le avevano detto tutti di non preoccuparsi, perché dal gommone avevano telefonato col satellitare il 29 luglio, verso le sette di sera, dicendo che vedevano già Malta all'orizzonte. Tuttavia su internet non c'erano notizie di sbarchi. E nemmeno di respingimenti. Lei glielo aveva sempre detto di non partire. Perché 16 anni sono troppo pochi per sfidare la morte attraversando il Mediterraneo. Gli aveva consigliato di chiedere asilo politico in Libia, ma lui si era scoraggiato. Le Nazioni Unite gli avevano dato appuntamento per il 10 gennaio del 2010, ma con le continue retate della polizia, un futuro in Libia era inimmaginabile. Ed era partito senza dirle niente. A Bonn non sapevano niente, così sempre più preoccupata, iniziò a contattare chiunque potesse darle informazioni sulla sorte del fratello. Nel giro di due settimane arrivò fino al ministero dell'Interno maltese, ma senza risultati. La conferma l'ebbe soltanto il 21 agosto, con lo sbarco a Lampedusa dei cinque superstiti. Dopo vari tentativi, riuscì a parlare al telefono con uno dei cinque superstiti al centro d'accoglienza di Lampedusa, che suo fratello lo conosceva e come. Prima di partire, a Tripoli, vivevano nella stessa casa. C'era anche lui sul gommone. L'hanno visto spegnersi lentamente, e poi l'hanno abbandonato in mare come tutti gli altri. Il dolore per il lutto, aggravato dal senso dell'ingiustizia, l'ha spinta a consegnarmi una copia del fitto scambio di email che ha avuto nelle prime due settimane di agosto con varie associazioni e autorità a Malta e in Germania, che dimostrano come la notizia della presenza di questa imbarcazione alla deriva fosse filtrata attraverso vari canali fin dalla fine di luglio. I primi contatti furono con gli eritrei a Malta. Sì perché a Malta correva voce che il tre agosto un eritreo avesse ricevuto una richiesta d'aiuto da un parente che viaggiava a bordo del gommone dei 78. Lo aveva chiamato col satellitare prima che le batterie del telefono si scaricassero definitivamente. A far perdere le tracce di questa pista fu il respingimento del 12 agosto. Un gommone con un'ottantina di persone a bordo era stato respinto in Libia dalla Marina italiana. Una donna somala che aveva partorito in mare era però stata trasferita in elicottero all'ospedale Mater Dei di Malta. Il numero di passeggeri, la posizione, la data, tutto faceva presupporre che fosse quello il gommone dove si trovava il fratello della signora eritrea in Germania. E infatti il 14 agosto la signora inviò un'email proprio all'ospedale Mater Dei, con tanto di foto in allegato del fratello. Chiedeva di mostrarla alla donna ricoverata per chiederle se lo riconosceva. La risposta fu negativa. Il Consiglio dei rifugiati di Colonia allora scrisse direttamente al ministro dell'Interno maltese. Rispose un funzionario dell'ufficio richiedenti asilo, che il 20 agosto alle 6:40 scrisse "Come le ho detto al telefono non abbiamo avuto sbarchi tra il 25 luglio e il 12 agosto, pertanto sono sicuro che suo fratello non sia arrivato a Malta". Il consiglio fu di rivolgersi alla Croce rossa tedesca. Ma la signora lo aveva già fatto, il 12 agosto. E l'ufficio per la ricerca delle persone scomparse di Monaco le aveva detto che avevano girato la segnalazione a Malta e a Lampedusa senza risultati. Ma ormai era troppo tardi. Il giorno dopo, sui quotidiani tedeschi campeggiavano i titoli della strage degli eritrei a Lampedusa. Prima di riagganciare il telefono, la signora mi chiede notizie sulla sorte delle salme dei naufraghi ripescate nel Canale di Sicilia. Difficilmente si ripescherà il corpo del fratello e difficilmente sarà identificabile. La famiglia tuttavia confida in una busta di plastica chiusa ermeticamente. Dentro c'è un biglietto di carta con su scritto il suo nome. Se lo era messo in tasca prima di partire, dicono gli amici rimasti a Tripoli. Un giorno i pescatori ritroveranno quella busta in mezza al pescato. E scuoteranno la testa pensando a quando il mare non assomigliava tanto alla morte. Gabriele Del Grande

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