sabato 4 aprile 2009

Un giorno con i disperati nell’ex clinica San Paolo

L’Africa in fuga nel Cpt fai da te: in 600 in attesa di un documento MARCO NEIROTTI TORINO Benvenuti alla clinica San Paolo. Non ci sono ricoverati, non ambulatori, apparecchiature, sale operatorie. Restano locali che erano camere di degenza, sale visita o d’attesa, lavatoi e servizi. Sono rimaste le targhette - primo piano, secondo piano... - e le lampade rettangolari che una volta stavano sopra i letti. Dall’alba a notte fonda è un viavai su e giù per scale, avanti e indietro per corridoi. Un paesone africano piantato nella città, con un condominio a destra e uno a sinistra. Benvenuti, allora, nell’unico Centro di Permanenza Temporanea abusivo d’Italia. Abusivo perché figlio di occupazione, ma Cpt spontaneo, senza accompagnamenti sulla volante, senza uniformi all’ingresso eppure senza fughe, senza appalti a privati ed euro che viaggiano eppure con naturali o aggressive regole interne. Stanno qui, secondo l’ultimo censimento della questura, 350 persone, ma sono di più, addirittura 600 dicono gli abitanti, profughi di Somalia, Sudan, Etiopia, e 600 mostrano con un palmo aperto e un pollice sollevato dall’altra mano. Uomini, donne, bambini, ogni stanza di clinica un raffazzonato miniappartamento, una sala d’attesa divenuta moschea, ambulatori fatti cucina, corridoi trafficati o intasati di gente seduta a chiacchierare come nei vicoli affollati di un piccolo centro storico a fine mattina d’una domenica. E’ una giornata con un variegato ma compatto popolo di clandestini del limbo. Qualcuno va via, altri arrivano, forse non tutti i nuovi venuti così limpidi come la maggioranza. Chiusi qua dentro, viaggiatori tra un piano e l’altro, ma senza pensiero di fuga: vogliono essere ritrovati da una questura che comunichi che li hanno riconosciuti profughi politici. E’ gente, la maggior parte, fuggita sbandando tra ricatti, violenze, orrori di trafficanti di uomini, da guerre civili, vendette sanguinarie, scene di macello che fanno tremare chi le racconta («gli presero i capelli, tirarono indietro la testa, alzarono la lama verso la faccia...») e devastano lo sguardo di chi sta intorno. Nei prossimi giorni andranno via trenta di loro, perché è finita bene la pratica per ottenere l’asilo politico. Volontari, strutture alternative, quello che si chiama un «percorso». Andranno via da un rifugio a suo modo protettivo, ma anche da una prigione autogestita e da un’incertezza, un senso di autoemarginazione e attesa e pretesa: «Sai, a volte ho pensato che tornare là non cambiava molto». Non dirlo o ti accontentano: «Lo so, è solo stanchezza, è tutto meglio che là. Ma quando finisce?» Finisce a turno. L’assessore ai servizi sociali del Comune, Marco Borgione, attento ai fenomeni eclatanti non più che a quelli solitari e silenziosi: «C’è un itinerario attraverso le associazioni, anche in centri più piccoli, ma esiste una lista d’attesa di 400 persone per 230 posti. Nessuno si illuda che un’occupazione con una necessità di sgombero costituisca un diritto di priorità, un canale privilegiato». Ha ragione, perché è quel che respiri tra le spezie dei fornelli e i sacchi neri ancora da portar via: «Siamo qui perché non ci danno lavoro, opportunità». Una deriva delicata, di pari passo con un turnover tutto da decifrare. Cammini tra gente in chiacchiere fra loro ma soprattutto nei cellulari: »Viene un amico da Bologna». O Firenze, o Verona, o Trieste, o Roma. «La nostra attenzione è che non diventi un porto di transito o un centro di smistamento», garantisce il questore Aldo Faraoni, «Si tratta di svuotare una struttura privata e occupata senza interventi radicali, ma senza trasformarla in una fonte sempre attiva». E’ la stessa cautela, la stessa attenzione del sindaco Sergio Chiamparino: «Dopo l’occupazione di una struttura in abbandono, dopo il censimento delle persone, sono venute da più parti occasioni di aiuto, per il cibo, le coperte, i generi di prima necessità. La città si è dimostrata come si è dimostrata sempre di fronte al bisogno. Diverso è l’eventuale spostamento fra città, diverso è il cavalcare tigri politiche ed economiche in più direzioni. C’è un problema e lo si affronta con una strategia, senza esibizioni muscolari e senza i pietismi del buonismo facile». Intorno c’è un quartiere popolare comprensivo, che lascia affacciare timori tiepidi. Nei condomini, alle fermate dei bus, nel bar d’angolo accanto alla clinica nessuno alza i toni: «Qualche fastidio viene quando due un po’ ubriachi litigano e si agitano in strada, oppure quando non hanno tempo o voglia per la toilette e usano come cesso il dehors, ma fin qui si è risolto con un’alzata di voce». E dentro il Cpt spontaneo? Qui dentro sale le scale la donna più matura accompagnata da un giovanotto che regge le buste delle radiografie. Le discende, tra i sorrisi, la ragazza con gli abiti colorati che cantano le linee del suo corpo. In ginocchio pregano in tre su stuoie e giornali stesi a terra. Quando fa buio qualche tensione passa accanto. Percepisci una gerarchia, forse anche lei spontanea, senti dal tono che forse quella voce non viene dall’inferno scampato ma dall’arroganza, cogli il modo di chiudere una porta oltre la quale una donna guarda il bambino, un’altra le sorride, un uomo veglia. Il paese si addormenta. Mai del tutto.

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