venerdì 24 aprile 2009

Il 25 aprile di un rifugiato eritreo

Lucia Alessi [24 Aprile 2009] Parla Thomas, uno dei 300 rifugiati accolti dal centro sociale Il Cantiere, a Milano, dopo il violento sgombero subito dalla polizia a Bruzzano. «E’ vita questa?». Se lo domanda Thomas, 28 anni eritreo, uno dei 300 rifugiati che venerdì scorso hanno occupato il Leonardo Da Vinci, e da martedì sono costretti a dormire nel parco davanti al Paolo Pini. Unica eccezione, la notte scorsa, quando «per una notte abbiamo accettato la proposta del comune: avevamo bisogno di riposare. – ci spiega Thomas – Ma oggi siamo andati via, dobbiamo tenere unite le famiglie, restare tutti uniti. Soprattutto vogliamo soluzioni vere». Thomas, come la maggior parte dei suoi amici, nel suo paese era un militare, impegnato in una guerra che non aveva scelto, e nel 2003 «ho lasciato i fucili e sono scappato», ci confida. Da allora anche per lui è iniziata la lunga Odissea attraverso il continente africano, prima il Sudan, poi il deserto e la Libia. Tappa tristemente obbligata, 2 mesi in un carcere libico, sufficienti a convincere Thomas a pagare altri soldi per fuggire. Dopo 4 giorni approda a Lampedusa con un gommone con altre 110 persone. E’ il 2005: due anni e 3000 euro di viaggio. «La mia famiglia ha dovuto faticare molto per mettere insieme una cifra del genere, ma se mi avessero preso non avrei avuto scampo», spiega. Dopo pochi giorni vengono mandati al Cara di Borgo Mezzanone, nella perferia di Foggia, ultimamente balzato alle cronache per l’istituzione di un nuovo autobus riservato agli ospiti del centro, per separarli dai viaggiatori «locali». Lì Thomas ha potuto fare domanda di asilo e attendere una risposta arrivata 4 mesi dopo, decretando la fine del suo soggiorno nel centro. «Non avevo nulla. Anche per pagare il rilascio dei documenti ho lavorato nei campi per guadagnare i 65 euro necessari per il rilascio». Difficile immaginare dove andare per ricominciare, partendo da nulla. «Mi hanno mandato a Crotone, presso una comunità che ospita stranieri». A Crotone, Thomas ha lavorato come fioraio: 4oo euro al mese, per tre giorni a settimana. Un contratto a quattro mesi, scaduto insieme ai sei mesi di permanenza nella comunità, dopo i quali avrebbe dovuto trovarsi un’altra sistemazione. «L’unica cosa che potevo fare era raggiungere alcuni amici che avevo qui, arrivati in Italia molto prima di me». Firenze, Bologna, Napoli. «Ovunque era la stessa storia. Brave persone, amici cari trasformati dalla disperazione, diventati fantasmi, costretti a vivere senza casa, nè lavoro. Molti avevano iniziato a bere: non li riconoscevo più, non potevo restare». Senza altre conoscenze, Thomas è costretto a tornare a Crotone, e trova lavoro in un benzinaio, dove lavora 12 ore al giorno per 600 euro mensili. «Ma ero senza contratto, e avevo paura. Così sono partito per Milano». Sei mesi dopo, con un sorriso tanto incredulo quanto arrabbiato, Thomas racconta «Milano l’ho girata tutta: agenzie di lavoro, cooperative, tutti chiedono la residenza e un contratto di affitto. Ma se nessuno mi fa lavorare, come faccio a prendere una stanza?». Come se non bastasse, «per ottenere il rinnovo del permesso – che ha una validità annuale – devo tornare a Foggia, ma nessuno mi dice quando. In un anno sono tornato a Foggia 20 volte, ogni volta spendendo soldi, tempo, giorni in cui nessuno sapeva dirmi perchè il permesso non era arrivato, nè quando lo avrei visto». Dopo un anno di attesa, durante il quale il foglio sostitutivo del permesso sembra non avere alcuna validità agli occhi dei potenziali datori di lavoro, finalmente il permesso: scadenza, 10 giorni. Vittime di un perverso circolo vizioso, altre 300 persone, tra cui donne e bambini, come Thomas trascorrono per strada le loro vite, «chi da mesi, altri da anni» raccontano, in attesa di una soluzione che «sembra impossibile da trovare». Per questo molti hanno provato a lasciare l’Italia, raggiungendo la Germania, la Francia, dove però il trattamento è sempre lo stesso, e vengono rispediti in Italia, dove ad ad attenderli non c’è nessuno. «Vogliamo solo una casa. Pagando come tutti, ma senza una casa nessuno ci dà lavoro. Non vogliamo creare problemi, vogliamo solo che le persone e i media sappiano cosa stanno passando più di 300 persone, tutti titolari dello status di rifugiato». Tra gli stranieri, in teoria, la categoria maggiormente protetta. «La cosa peggiore è vedere un’amministrazione trattare come emergenziale una situazione che dura da anni, senza fare mai un passo avanti», ci dicono i ragazzi del Cantiere [www.cantiere.org], il centro sociale che da venerdì sta seguendo i rifugiati. «Siamo arrivati subito, per portare acqua, cibo e coperte. Abbiamo messo a loro disposizione dei computer con cui hanno creato un sito [rifugiatimilano.blogspot.com], ma è il comune che deve assumersi le proprie responsabilità e dare risposte adeguate, nel pieno rispetto dei diritti di queste persone». Che stanotte dormiranno di nuovo per strada, attendendo pazientemente una risposta che, «non sappiamo se arriverà mai. La maggior parte di noi sono ragazzi giovani, con storie durissime alla spalle, in cerca di un lavoro e di una vita dignitosa. Quello che più temo è che la disperazione si impossessi di noi; ecco perchè abbiamo deciso di farci sentire, vogliamo spezzare una catena che ci tiene prigionieri, sotto le intemperie». Domani, alle manifestazione per il 25 aprile, ci saranno anche loro, «perchè è una giornata importante anche per l’Eritrea: il fascismo non si è fermato in Italia».

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